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Articoli pubblicati su "Il Vespro"








Rubrica di cinema: Lo abbiamo visto per voi

Irina Palm. Il talento di una donna inglese

di Giampiero Finocchiaro

Semplice la vicenda raccontata da questo bel film di Sam Garbarski con Marianne Faithfull e Miki Manojlovic: la malattia di un bambino costringe alla povertà una piccola famiglia composta da due giovani genitori e dalla non ancora anziana madre di lui. Siamo in Inghilterra, oggi. La vendita della casa consente di sostenere le spese sanitarie necessarie per capire di cosa soffre il bambino. Poi resta la speranza di una cura sperimentale in Australia. L’impossibilità di sostenere i costi e l’incapacità dei giovani genitori nel trovare una soluzione al di fuori degli schemi consueti e tragicamente banali, spinge l’anziana in direzioni insolite, casuali forse o semplicemente apparecchiate dal destino che in questa vicenda sosta a Soho, quartiere a luci rosse della capitale britannica. Il valore del destino sta tutto nella capacità delle singole persone di coglierne l’invito oltrepassando il muro delle convenzioni perché i “valori” della vita con cui tutti impastiamo di suoni insignificanti i nostri bei discorsi, stanno su un altro piano, per raggiungere il quale si deve avere il coraggio di incrinare le pareti rassicuranti dell’ipocrisia, dello status sociale. Lo fa Maggie, donna vicina ai sessant’anni che per caso e per forza si trova a imparare un nuovo mestiere, quello di “operatrice del sesso” in uno di quei locali di delirio nipponico dove ai maschi è permesso uno sfogo sessuale rapido e onanista ch’era invece divertente nell’intuizione di Woody Allen quando inventò l’Orgasmatic.

Il tocco di fata dell’anziana Maggie le procura un successo di pubblico con cui ottiene il denaro utile all’operazione del nipote. Sarà ripagata dalla velenosa bontà delle amiche impermeabili alla sensibilità come all’intelligenza, schiave di un equivoco diffuso che confonde la dignità con il decoro architettonico della casa. Persino il figlio, prima di tornare all’affetto e alla dovuta gratitudine, dovrà prima spezzare il condizionamento sociale con cui d’istinto giudicherà la madre.

La vicenda è teneramente ingentilita dal meraviglioso mondo interiore di Maggie. Colpisce l’esigenza di abbellire il locale squallido in cui lavora da sola, circondata di pareti buie e colpisce fortemente il rigore con cui si dispone al lavoro indossando abiti da donna delle pulizie. Nella sua mente non c’è quella separazione totale tra vita lavorativa e vita privata a cui la sollecita la giovane istruttrice, presto oscurata dall’inattesa abilità di Maggie. L’ambiente oscuro e perverso che la circonda, semplicemente non esiste per lei che ha chiaro uno scopo ben più alto, cosa che la pone al di sopra della miseria oceanica dell’umanità di passaggio al Sexy-World. Sarà il suo intimo senso di serenità, di aderenza al giusto, sarà la sua capacità di sopportazione dignitosa della difficoltà del vivere che le permetterà persino di traghettare il suo datore di lavoro, dall’aridità in cui è precipitato dopo il tracollo dei sogni giovanili ad una nuova speranza di affetto, da condurre insieme. L’apparente precipitare di Maggie verso il basso della scalinata sociale – concorrono la vendita della casa, la malattia del nipote, l’avvio infine di una professione simbolo dell’ipocrisia contemporanea – è in realtà il segno di un percorso inverso di elevazione e di riscatto morale. Dalla insignificante vita piccolo borghese delle amiche di un tempo Maggie, divenuta Irina Palm, si distanzia per diventare unica e irraggiungibile per dignità, conquista una posizione di inimitabile prossimità con la Giustizia e la Verità. La mediocrità del gruppo da cui Maggie si allontana è colpa senza pena; le difficoltà che la vita le impone e che lei sa accettare e contrastare rappresentano invece all’opposto una pena senza colpa. Da qui l’inverso procedere che la conduce nel mondo che è solo dei santi e degli eroi..

(da "Il Vespro" gennaio 2008)




Abbiamo visto per voi

Dell’immagine

di Giampiero Finocchiaro

Due mostre, entrambe contrassegnate dal valore dell’immagine nel suo complesso di significati che richiamano la forma esteriore e la sua rappresentazione mentale, espressione ed impressione, concreta ed astratta, in un gioco di rimbalzi che arricchiscono chi guarda e chi è guardato. Diversamente nei modi ma con uguale sostanza, due mostre di pittura dedicano all’immagine ampio spazio.


Guttuso: La potenza dell’immagine

Giungendo dalla strada del mare che da Palermo conduce a Bagheria, Villa Cattolica si mostra improvvisa nel suo splendore antico e per fortuna restaurato con garbo. Dal 15 dicembre e fino al 30 maggio 2008 vi si ospita una mostra dedicata alle opere che Renato Guttuso (1911-1987) ha realizzato nell’ultimo ventennio della sua vita e attività.

La bella villa costruita nel 1736 da Francesco Bonanno, principe di Cattolica (ormai di proprietà comunale), offre in effetti una location suggestiva, soprattutto per il famoso pittore bagherese di cui custodisce anche le spoglie nel bel monumento di marmi sospesi nell’acqua ideato nel 1990 dall’artista Giacomo Manzù. E se essa è sede di una Galleria di arte moderna e contemporanea lo si deve proprio ad un nucleo corposo di donazioni che Guttuso lasciò già nel 1973.

Quelle disponibili al pubblico sono circa 200 opere disposte tra il pianterreno e i due piani superiori. Ci si aggira in un articolato percorso fitto di stanze in cui osservare tutto, soffitti affrescati, pavimenti con belle maioliche e alle pareti quadri, fotografie e manifesti. Insieme, permettono di cogliere la varietà di un artista che forse al grande pubblico è noto per talune tele di particolare fortuna, come “La Vucciria” e il “Caffè greco”, che ai nostri lettori suggeriamo di osservare con attenzione, alla ricerca non solo di volti noti ma anche di personaggi misteriosi che sembrano uscire da un quadro ed entrare nell’altro, dando l’impressione di trovarsi davanti a un gioco da decifrare e lasciando anche la sensazione di odori e voci emanati dai quadri che si animano come scene di vita reale.

Di notevole effetto sono le grandi tele colme di soggetti femminili osservati in una carnalità piena ed elementare, quasi un dato di natura che della donna mostra una grandezza irraggiungibile, come sembrano suggerire taluni personaggi maschili schiacciati dall’accostamento a figure di donna invadenti, morbide, distratte ma sempre sensuali. Queste più di ogni altra opera mostrano la personale cifra del pittore bagherese sospinto da una parte verso un espressionismo facilmente riconoscibile e dall’altra chiaramente orientato al rifiuto di ogni canone accademico che gli fa preferire la sospensione libera delle sue figure nello spazio aperto della tela.

Interessanti sono pure i bozzetti realizzati per le scenografie teatrali in cui si coglie appieno l’insularità del pittore, complici le scelte cromatiche e i soggetti utilizzati (delfini, Colapesce, etc.). E suggestive riescono le fotografie in bianco e nero, che rimandano a luoghi lontani nel tempo, ma vivi di una memoria enorme se si considerano le compagnie più usuali presenti nei ritratti e che si chiamano Picasso, De Chirico, Sanguineti e simili.

La mostra consente anche di percepire il valore sociale della pittura di Guttuso che proveniva da una famiglia legata ai valori della libertà e della giustizia. Divenuto antifascista nel periodo della guerra, negli anni Settanta prese parte attiva alla vita politica e ne sono testimonianza sue famose opere come “I funerali di Togliatti” e, presente nell’allestimento di Bagheria, il “Comizio alla Vucciria”.


Caravaggio: L’immagine del divino

L’allestimento presso il Museo Pepoli di Trapani ha un pregio: mostra che le Amministrazioni di piccola dimensione hanno recepito l’importanza di incentivare il turismo culturale.

Le tele del Caravaggio (1571-1610) sono state collocate lungo un percorso che a taluni è parso infelice, ma va riconosciuto invece che la disposizione curata da RomArtificio inclina il visitatore a un raccoglimento che lo introduce al senso stesso della mostra: il senso del sacro. Aspetto, questo, innovativo della poetica del geniale pittore lombardo, vissuto in un periodo storico-culturale che avvertiva l’imponente sforzo compiuto dalla Chiesa nel corso della Controriforma per rivitalizzare l’autentico spirito cristiano. Michelangelo Merisi da Caravaggio, assimilò in particolare il rinnovamento spirituale proposto dai mistici e da personaggi come Sant’Ignazio di Loyola o San Filippo Neri e certamente risentì della riscoperta della teoria di Sant’Agostino sulla Grazia e la Luce divina. Luce che da lungo tempo veniva usata dai pittori di ogni luogo per dire simbolicamente della potenza divina ma che in Caravaggio coniuga l’istanza realistica con l’urgenza mistica. Da una parte, cioè, l’esigenza di ritrarre i suoi personaggi nella concreta drammaticità terrena e dall’altro l’analoga esigenza di mostrarne la tensione spirituale che trasforma la condizione terrena e tragica in necessario passaggio per l’elevazione dell’anima oltre la morte.

Gli spazi dedicati alla mostra consentono un contatto ravvicinato e intimo con i dipinti di Caravaggio ed è già questo elemento di apprezzabile confidenza che certamente il pittore stesso avrebbe gradito. Soffrono soltanto due grandi tele le cui dimensioni non consentono un’osservazione adeguata con lo spazio a disposizione. Per il resto è però piacevole trascorrere dai “doppi” di San Francesco in meditazione alla “Resurrezione di Lazzaro” e alla “Decapitazione di San Gennaro”. I “doppi” di San Francesco mostrano l’esito di 32 anni di indagini terminate nel 2000 e volte ad accertare l’autografia di entrambi i dipinti. Caravaggio non di rado, forse anche per mere ragioni commerciali, usava eseguire più volte un medesimo soggetto e non avendo l’abitudine di realizzare disegni preparatori ha messo in crisi i suoi studiosi, sempre alla ricerca di tracce che confermassero la mano del pittore e non quella dei suoi numerosi imitatori. Le didascalie consentono al visitatore-lettore di conoscere i segreti di questa singolare vicenda.

Al visitatore suggeriamo uno sguardo prolungato alla Resurrezione di Lazzaro, tela di circa 4 metri per 3, esempio efficace dei nuovi schemi compositivi adoperati dal Caravaggio, soprattutto per i soggetti sacri. Il quadro mostra sulla destra una moltitudine di gente su cui spicca la figura eretta del Cristo che col braccio teso e le dita della mano che accennano al noto gesto del Pantocrator, indica Lazzaro. Questi è riverso sulle braccia di chi lo sostiene, la sua figura complessiva con le gambe unite e le braccia distese evoca la Croce, così il Cristo nell’atto del Salvatore vede prefigurato nella sagoma del salvato il proprio destino di morte terrena, in un gioco di rimandi simbolici. Lo conferma la linea immaginaria che unisce il braccio del Cristo a quello sollevato di Lazzaro il quale a sua volta forma una sola linea con il braccio inferiore che termina, a terra, con la mano aperta rivolta a un teschio: un gesto di raccolta della Morte. E la donna il cui volto cerca il ritrovato calore del viso di Lazzaro, preannuncia il dolore di Maria ai piedi della Croce.

Segnaliamo, infine, l’incomprensibile assenza di riduzione del biglietto per i professori della scuola ai quali la frequenza di mostre, convegni e librerie dovrebbe stare come l’acquisto dei chiodi al falegname (che da operaio gode invece di ogni agevolazione inventabile).

(da "Il Vespro" febbraio 2008)




Rubrica di cinema: Lo abbiamo visto per voi

Cous cous

di Giampiero Finocchiaro

Cous cous, non soltanto una pietanza ma un’idea. Come sempre accade per quei cibi tradizionali in cui si aggrumano sapori, odori, abitudini, storie.

Quella che racconta il film di Abdellatif Bechiche parla di emigrazione, sottintende tenacia e tolleranza ma, soprattutto, rivela quale grande differenza separi il mondo delle donne da quello degli uomini. Per ribadire, se fosse necessario, che il primo ha un valore ignoto al secondo.

Siamo in Francia, c’è crisi, forse, mentre di sicuro ci sono nuove strategie manageriali per cui un lavoratore dei cantieri navali, impersonato da Habib Boufares, non è più considerato produttivo. Il licenziamento arriva in modo subdolo così il protagonista fatica a prendere consapevolezza della sua nuova condizione. A frammenti, intanto, emergono i pezzi della sua vita privata e si compone un quadro che soltanto alla fine rivelerà il suo senso.

Sulla strada tracciata dall’uomo, si innestano vite di donne, storie agitate dall’incostante movimento di esili figure maschili, interiorità minime che sotto questo aspetto si accomunano tutte fra loro, includendo persino il protagonista.

Contrasta la grandezza delle tre figure femminili. Tre età, tre tipi, uniti dalla forza della vita che si esprime in un’indole fiera, fabbrile, concreta. Tutte e tre girano intorno alla soluzione finale, con diverso ruolo, indole, storia. L’apertura di un ristorante galleggiante, specializzato nella preparazione del cous cous. Intorno a questa vicenda che dà nuova speranza al protagonista, s’inaspriscono ma per sciogliersi, gli attriti e le incomprensioni. Complice una logica del fare e del sentire che sempre si sfilaccia nei luoghi a sud del mondo, ma sopravvive nei cuori, pronta a riemergere in territori di orizzonte settentrionale.

Inevitabile la tragedia finale e non per dare senso salvifico al film, piuttosto per ribadire, come si suggeriva all’inizio, che il mondo, quando è sinonimo di vita, non può che essere donna.

(da "Il Vespro" marzo 2008)




Rubrica di cinema: Lo abbiamo visto per voi

Into the wild

di Giampiero Finocchiaro

Into the wild, l’ultimo film da regista di Sean Penn, viene definito un film d’avventura. Cioè? Cos’è questa “avventura” che tutti noi chiamiamo in causa di quando in quando, magari per tornare a sentirci liberi. Il termine indica le cose che devono ancora venire, sinonimo di sorte, meglio, di futuro. E se il darsi all’avventura racchiude il fascino del non conosciuto e con esso quello della totale libertà, si comprende anche il fascino del futuro, luogo potenziale e ancora inespresso che contiene tutti i nostri sogni, le aspirazioni, un immenso spazio temporale in cui depositare ciò che abbiamo lasciato per strada come non fatto e non detto, ciò che non abbiamo saputo difendere, ciò che non abbiamo saputo seguire, ciò che non abbiamo saputo costruire. Il futuro, insomma, come avventura del mondo possibile, di quel mondo migliore che tutti diciamo a parole di volere e non sappiamo costruire.

Ne parla questo bel film basato su una storia vera, la vicenda di un giovane americano che via via si spoglia della modernità fatta di “cose” e frastuoni. Quasi un novello san Francesco, con la differenza che Chris – nome sia del protagonista reale che del personaggio – pur lasciando in beneficenza i suoi averi, non rivolge ai suoi simili la sua ansia di verità ma al mondo della natura. Terminati gli studi universitari, assolto l’obbligo dell’istruzione che gli permette di affinare la sua speciale sensibilità, Chris si incamminerà verso l’ignoto (Niente telefono, niente piscina, niente sigarette, libertà estrema), sempre più a nord, sempre più verso quei luoghi dove il freddo e il silenzio si sostituiscono al calore umano e all’insulso vociò delle masse che urlano senza sapersi ascoltare (Non capisco perché ogni persona è così cattiva col suo prossimo).

Il suo avvicinamento all’Alaska, dunque, è un viaggio durante il quale conosce e fa amicizia con alcune persone che di lui serberanno un ricordo eterno di affetto sincero, perché autentico e disarmante è il modo con cui Chris si relaziona con loro: il modo della nuda verità. Come dice lui stesso nel diario che scrive e fa da voce narrante nello sviluppo del film, abbiamo solo bisogno di cambiare il modo di guardare le cose, impegno semplice benché non facile, che dipende dalla scelta individuale. Che lui fa. Così, il giovane laureato in legge si arrangia con qualche lavoro manuale fino a quando non è pronto e affronta la sua verità. Non è una sfida a portarlo a sopravvivere tra i ghiacci dell’Alaska dove può urlare al vento e agli elementi della natura la sua condizione solitaria che non è solitudine grazie ai libri che si è portato dietro. È piuttosto il sogno che diviene bisogno di aderire con il semplice dato della sua esistenza all’esistenza del mondo, in una coincidenza che è il vero senso della natura, da noi smarrito per sempre. Sfumano sullo sfondo, con la tecnica narrativa del flash back, i grattacieli e le strade asfaltate, la cattiveria e la miseria, la disperazione e la solitudine, anfratti abnormi e letali della civiltà urbana. Si assottigliano, si dileguano come perdendo il senso stesso della loro presenza. Così, alla fine del film, nonostante un epilogo di apparente tristezza, ci sentiamo sollevati, quasi: persone addolcite dalla riflessione obbligata a cui ci costringe un dolore, freschi di una ritrovata leggerezza, come avessimo cominciato a cambiare il nostro modo di guardare le cose.

(da "Il Vespro" aprile 2008)




La mostra di De Chirico alla GAM di Palermo

di Giampiero Finocchiaro

È bello sapere che c’è un luogo, a Palermo, dove periodicamente tornare per accogliere tra i sensi e la tensione emotiva le vibrazioni che promanano dalle opere d’arte. Di artisti che meritano, certo. Come lo è De Chirico, ancora presente a Palermo, questa volta presso la Galleria d’Arte Moderna, e di nuovo per iniziativa di Maurizio Calvesi che già nel 2003 aveva curato un’esposizione di una quarantina di capolavori questo eclettico autore nelle sale espositive di Palazzo Ziino. Un vanto, allora, per l’Assessorato alla cultura di Palermo, prima pubblica istituzione a dedicare una mostra ad hoc ad uno dei maestri del Novecento pittorico italiano ed europeo. Un vanto che si è confermato con questo nuovo percorso, La Metafisica continua, che accosta le opere del grande Maestro non cronologicamente ma per tema, cercando al tempo stesso di ricreare l’atmosfera della casa-museo che a Roma ospita i lavori di De Chirico, oggi curati dalla omonima Fondazione.

Accade spesso che a motivare eventi come questo siano ricorrenze tristi, come in questo caso lo è stato il trentennale della scomparsa di De Chirico. Eppure, magicamente, il riunirsi di quadri e sculture che testimoniano della fabbrile operosità del Maestro, le suggestioni che questi oggetti d’arte portano con sé e le sollecitazioni che offrono ai visitatori e a quanti vi poggiano lo sguardo con interesse e curiosità, producono l’infinita rinascita del loro Autore, com’è nel destino dei grandi maestri, dei grandi artisti. Si scorre tra tele e fusioni di bronzo, alcune maestose come i grandi Archeologi che trovano multipla eco nelle riproduzioni omonime di più ridotte dimensioni ed altre quasi nascoste con artificio, come i Coloniali posti a mezzo tra due coppie di piccoli Archeologi.

Colpisce nella prima sala il susseguirsi di “imitazioni”, tele realizzate cercando di com-prendere (secondo l’etimo corretto del termine) le visioni e le tecniche che furono di altri grandi maestri prima del nostro. Una carrellata metodologica che sintetizza la strada che ha condotto De Chirico dalla vocazione alla grandezza.

E appaiono come improvvisa luce le opere più note, quelle a cui l’Autore deve l’etichetta di metafisico, giusta solo in parte per una vena pittorica che mal si racchiude in categorie circoscritte come ha mostrato la sua vicenda biografica.

Impossibile suggerire quali evocazioni sorgano davanti alle tele con “enigma” o di fronte a ritorni nel tempo come Ettore e Andromaca (1917 e 1974), lì dove pienamente si coglie quel senso di estraniamento che il pittore teorizzava come chiave di accesso ad altre dimensioni, quelle nascoste dalla routine del quotidiano, quelle capaci di rivelarsi solo che fosse rivoluzionato l’ordine logico, l’aspettativa della norma. Così i manichini usciti dalla sua invenzione, sul quadro tentano di confondersi sul piano reale di una piazza, quasi possibili condomini di uomini e donne ma poi nella presenza museale rivelano qualcos’altro che li rende eccezionali e ancora irreali. In un gioco di rimandi che conduce il visitatore in un regno di mezzo tra sogno e realtà.

(da "Il Vespro" aprile 2008)




Rubrica di cinema: Lo abbiamo visto per voi

Il Divo

di Giampiero Finocchiaro

Vero è che con molta esitazione potrebbe dirsi che ancora esiste la vergogna, ma per fortuna neanche può negarsi che sia estinta. Almeno così credo io. E poi ce lo ricorda questo singolare lungometraggio di Paolo Sorrentino, Il Divo, che alterna terrificanti moviole di omicidi ed attentati a silenzi ironici e sequenze di cronaca immerse in atmosfere felliniane, per dire della complicità che qui si osserva tra il reale e il surreale, tra la verità e il suo grottesco e sotterraneo racconto che è la politica italiana degli ultimi decenni. La visione del film induce a provare vergogna, ma quale? e verso chi o che cosa? La vergogna è un sentimento che nella sua storia riconduce ad atteggiamenti di riservatezza descritti da espressioni come timidezza e ritegno; o ad altri come il riguardo, la discrezione, la modestia; contiene persino lodevoli comportamenti che si esplicitano nella venerazione, reverenza, rispetto, deferenza, stima; e solo in coda alle evoluzioni dell’originale latino: verecondia si trova quel “sentimento di profondo turbamento e di mortificazione, derivante dalla consapevolezza che un atto, un comportamento, un discorso, ecc., propri o anche altrui, sono riprovevoli, disonorevoli, sconvenienti” (T. De Mauro). La vergogna, appunto. Questa sequenza concettuale è tutta efficacemente rappresentata dal volto ineffabile di Toni Servillo, protagonista capace di rendere la maschera enigmatica del vero Divo: Giulio Andreotti.

La storia italiana recente, tristemente ricca di episodi “riprovevoli, disonorevoli, sconvenienti”, passa tutta attraverso la vita di questo rappresentante di un modo di fare politica che ha lasciato un segno profondo nella cultura del nostro martoriato Paese, una traccia destinata a durare ancora molto a lungo. La feroce indifferenza che il Divo spaccia a se stesso per forza d’animo altro non è che l’arroganza del potere installatosi in roccaforti distanti in modo abissale dalla realtà che tutti noi condividiamo ogni giorno. Rende bene, in tal senso, una sequenza che inquadra il Divo seduto come su un trono, in penombra, che osserva che il Male è necessario proprio per assicurare il Bene: “lo sa Dio e lo so anch’io”. Così tutto si assolve da sé, per l’uomo freddo e composto, dalla battuta tagliente e sempre pronta, che regge le sorti dell’Italia da un tempo infinito come fosse un monarca di altri secoli ed altre latitudini. Gli innumerevoli incarichi ministeriali, i numerosi governi presieduti, le inesauribili cariche di presidente di enti e associazioni di ogni genere e sparsi ovunque per il Paese avido di lui come i servi del beneficio di strisciare ai piedi del sultano per ottenerne molliche e benevolenza, sono soltanto la facciata della forza di comando e asservimento che secondo il film ha caratterizzato un’epoca e uno dei suoi rappresentanti più significativi in particolare.

Allora torniamo a prima: apparente la timidezza e finto il ritegno, assente il riguardo, sconosciuta la discrezione, perduta la modestia, incompresa la reverenza, negato il rispetto, dimenticata la stima. Restano: la venerazione che è il perseverare nei secoli del culto dell’individualismo che si crede erroneamente prodotto del capitalismo, e la deferenza che è forma strisciante vile ed interessata del rispetto che cristianamente inteso non si è mai affermato. Della vergogna, intendo dunque, non possiamo che prendere il senso ultimo di mortificazione, che è il sentirsi morti dentro ma per rinascere. E questo ancora si attende. Vedere il film, aiuta a pensare.

(da "Il Vespro" luglio 2008)




Abbiamo visto per voi

Il mondo fantastico di Picasso

di Giampiero Finocchiaro

Picasso a Palermo. Dovrebbe fare notizia e invece se vi recate al Palazzo Reale che ospita questa mostra di indiscutibile valore, troverete in fila più stranieri che palermitani e viciniori. Eppure ci si prova a creare eventi di richiamo culturale. Il fatto è che, forse, la “cultura” che attira è quella che dà titolo ad una ridicola trasmissione televisiva tenuta da un signormachiè circondato da ragazze ridotte a veline (sic!) che fa sorridere con le stupide battute di anonimi autori senza linguaggio e senza idee.

Nelle sale dette del Duca di Montalto, sono ospitate sessantasei opere del grande Maestro spagnolo (nome completo: Pablo Diego José Francisco de Paula Juan Nepomuceno María de los Remedios Cipriano de la Santisima Trinidàd Martyr Patricio Clito Ruiz y Picasso; n. 1881; m. 1973) che di idee invece traboccava e di linguaggi ne inventava a iosa. Non a caso Pablo Picasso è un esemplare difficilmente imitabile per lo zelo e la vivacità produttiva, per la tempesta creativa di cui era portatore, per la vastità della sua ispirazione artistica e la padronanza delle tecniche espressive. Grazie a dio la mostra – a ingresso gratuito e organizzata dall’ARS e dall’assessorato regionale Beni Culturali – rimarrà aperta fino all’8 marzo 2009 e ci sarà dunque tempo per pentirsi di non avere risposto al richiamo dell’arte del pittore noto per i suoi “periodi”: il blu, il rosa, l’africano, il cubismo, il neoclassicismo.

Non attendetevi i grandi quadri che la scuola diffonde come nozioni universali, non attendetevi dunqueGuernica o Les demoiselles d'Avignon, ma disponetevi alla visione di immagini intime come possono esserlo i ritratti tracciati con penna e matita su fogli di carta di uso comune o con china e gessetti su carta con filigrana. Si tratta di opere giovanili ma anche di età matura, per lo più appartenenti alla prestigiosa collezione Wurth, nelle quali troverete una sensazione di semplicità che vi restituirà con immediatezza l’agilità della mano di Picasso, la sua coincidenza con la rapidità dell’intuizione artistica che lo attraversava, continua e vitale, come il respiro. Dovrete acuire i sensi e l’intelletto perché nel girovagare del segno grafico che talvolta si attorciglia e si contorce avrete modo di distinguere volti e volumi che di primo acchito tenderanno a sfuggire, come diamanti celati nello scuro della roccia. È lo sforzo che l’opera d’arte richiede come segno dell’impegno reciproco, tra colui che guarda e l’oggetto osservato. Non un semplice e anonimo automatismo, ma un lavoro cosciente di ricerca e scoperta.

Una sezione di questa mostra curata da Roland Doschka, è dedicata alle numerose donne di Picasso: La bella Fernanda Jacqueline, Profilo di donna, Donne di Mougins, Ritratto di Francoise Gilot, etc. Presente anche una testimonianza delle famose colombe che realizzava con veloce semplicità: vi sono persino due esemplari in terracotta bianca realizzate a mano dall’artista.

Da segnalare la breve ma intensa galleria di ritratti fotografici che dà una visione concreta dell’artista nella sua fabbrile operosità. E alcuni oli su tela di maggiori dimensioni che restituiscono il Picasso più noto, quello che tirava fuori geometrie insospettabili nei tratti umani dei volti e degli sguardi convinto che occorresse cogliere l’oggetto da ogni punto di vista contemporaneamente anche se questo poteva risultare non immediatamente leggibile.

Si va via con la sensazione di avere aperto un altro punto di osservazione nel proprio strumentario se si tiene al senso critico più che all’apparire fugace.

(da "Il Vespro" novembre 2008)




Rubrica di cinema: Lo abbiamo visto per voi

Il papà di Giovanna

di Giampiero Finocchiaro

Non stupirà che un film intitolato “Il papà di Giovanna” racconti di un sentimento che lega un padre e una figlia. Ciò che stupirà, vedendo questo bel lungometraggio di Pupi Avati, è scoprire, apprendere, constatare, di cosa sia capace l’amore quando è assoluto, quando soltanto offre senza chiedere nulla in cambio. Così avviene nella vicenda familiare di Michele Casali (Silvio Orlando), insegnante di educazione artistica in una scuola di altri tempi, quella dell’Italia che nel ventennio fascista volle sentirsi “implacabile” come in remote glorie mai più ripetute. Per fortuna, aggiungeremmo se non si dovesse contemporaneamente prendere atto di una resa così profonda da risultare molto più sofferta di una sconfitta.

Il racconto: la moglie di Michele, insoddisfatta e devota, è un ordigno pronto ad esplodere, simbolo di una ambizione tutta esteriore – come fu l’iperbole fascista - destinata a crollare al primo sussulto; la figlia, introversa ed onirica, predisposta ad affondare nella tragedia, a sua volta simbolo di una sottomissione interiore che riconduce a colpa il laissez faire che diede spazio al delirio mussoliniano. Tra loro il marito-papà Michele, un cuore denso nutrito da una mente aperta al dialogo e all’ottimismo, singolare dimensione nel quadro storico che fa da cornice alla vicenda. E uomo d’altri tempi, deve aggiungersi per togliere subito di mezzo il vanitoso equivoco che un tale esempio oggi ancora potrebbe qualcuno tenere. Intorno a loro v’è uno sfondo sociale che copre gli anni tra il 1938 e il 1945 che mostra i pezzi e i frantumi in cui ciclicamente la nostra umana razza annunzia le proprie temporanee ambizioni di civiltà e progresso nel farneticamento guerriero di nani e potenti. Così la storia del “papà di Giovanna” diventa racconto o, meglio, duello tra il tendere dell’uomo al realismo esteriore della storia e il tendere alla verità interiore del sentimento. Propende per il primo la mamma di Giovanna che in esso vede la sola realtà e abbandonandosi ad essa ne viene annientata. È certo del secondo il papà di Giovanna che per sostenere la figlia, precipitata da un gesto criminale in un tunnel di dolore ed ignominia, si accascia in una esistenza sempre più perduta fuori ma forse ricca dentro. Sarà lui a tessere il filo che recupererà dai reciproci abissi tanto la figlia quanto la moglie. E lo farà con la forza semplice dell’amore, lo stesso che lo porterà a capire quando essere presente e quando assente, a distinguere i bisogni delle persone che ama e che talvolta gli chiedono costanza e prossimità e talaltra affettuosa distanza e complicità. Un amore alimentato dalla pazienza, dalla consapevolezza che gli umani destini sono piccole meteore di solitudine e dolore se vissute slegate dalla certezza di un amore più grande che tutto unisce e tutto spiega. L’amore di un papà, l’amore che un Maestro ci affidò come amore del prossimo.

(da "Il Vespro" novembre 2008)




Abbiamo visto per voi

Un pomeriggio all’opera

di Giampiero Finocchiaro

Non si creda che l’opera lirica sia spettacolo d’élite o di difficile accesso. Provare per credere. L’Aida di Giuseppe Verdi che attualmente propone il Teatro Massimo di Palermo è in questo senso un ottimo esperimento nonostante sia noto che è tra le più lunghe (4 atti) del panorama operistico.

La storia, su libretto di Antonio Ghislanzoni e basata su un soggetto originale di Auguste Mariette, racconta di una principessa etiope catturata e condotta in schiavitù in Egitto. Si innamora dell’eroe Radames che a sua volta è combattuto tra il desiderio di Aida e la fedeltà al Faraone. Naturalmente ci si mette di mezzo la figlia del monarca che non solo ama pure lei Radames ma vuole imporsi sulla rivale con l’inganno e la prepotenza. Ovviamente finisce male perché la figlia del faraone non otterrà nient’altro che spingere Radames tra le braccia dell’altra ma rovinandosi fama e carriera. Un tribunale di saggi, dopo avere salutato in Radames il salvatore della Patria, lo condanna per alto tradimento a morire sepolto vivo in una cripta. Aida non resisterà e…

Meglio non dirvi come finisce, andatela a sentire. Sì perché in effetti questo allestimento per la regia di Franco Zeffirelli e la direzione d’orchestra di Maurizio Benini, offre un vero e proprio incanto alla vista e all’udito. È facile intuire che ci troviamo davanti a una narrazione che ha le caratteristiche per affascinare e coinvolgere gli spettatori. Non è un caso che tanti fortunati serial tivù ricalchino fedelmente i moduli narrativi che tra ’800 e ’900 fecero la fortuna del romanzo d’amore. La musica, poi, aggiunge una sollecitazione emotiva che commuove e lascia una sensazione di piena soddisfazione che ripaga ampiamente dello stare seduti per quattro ore. Spaventasse il costo dei biglietti, segnalo la possibilità di seguire le prove generali che precedono la “prima” e che sono accessibili con un costo di pochi euro. Un motivo in più per comprendere anche il teatro lirico tra i propri consumi culturali.

(da "Il Vespro" dicembre 2008)




Abbiamo visto per voi

Palermo shooting

di Giampiero Finocchiaro

Sono andato con qualche cautela a vedere l’ultimo film di Wim Wenders. E sì perché affrontare un’opera realizzata – come abitudine per Wenders – senza una vera sceneggiatura o al più con un canovaccio, presenta rischi. Il rischio è che l’autore si compiaccia di riflessioni personali difficili da condividere col pubblico, col grande pubblico perché dei tantissimi intellettuali auto referenziati è talmente scontata la sudditanza psicologica che come un gregge, si sa, plaudono qualunque cosa gli venga proposto da chi ha ormai un alone di maestro.

Eppure non è sempre limpido il pensiero di un autore, non sempre è pronto fino in fondo specie se, come talvolta accade, urgono esigenze di commercializzazione o di spesa di fondi che, se lasciati aspettare, si perderebbero. Mi pare che i finanziamenti PON della Sicilia abbiano, in questo senso, fatto qui un torto al regista tedesco più che aiutarlo a esprimersi con la libertà che rivendica da sempre e che per la verità non gli è mancata mai. Palermo shooting, infatti, è una meditazione priva di ottimismo sulla morte e sul senso della vita che non offre alcuna idea originale, nessuna prospettiva meditata a sufficienza. Realizzato in un tandem di location tra una linda e modernissima Dusseldorf ed una lercia e decomposta Palermo, intessuto di visioni del tempo sospese a mezzo tra citazioni bergmaniane e incompiute visioni personali, questo film che senza dinamiche drammatiche gira intorno al dramma della vita resta compresso e senza fuoco.

Nonostante sia sorretto da un’ottima antologia musicale arricchita di illustri presenze (Lou Reed, Patti Smith, Giovanni Sollima), e coadiuvato da una eccellente fotografia (si segnala il cammeo inconcludente con Letizia Battaglia) che tuttavia mi pare debitrice dell’ispirazione sempre fresca di Magritte, Palermo shooting lascia la sensazione di un approccio fragile al tema della vita il cui senso, si sostiene, è nella capacità di affidarsi alla morte come ad un tenero e gentile abbraccio che dischiude le porte della verità. Cito quasi testualmente: “La morte è una freccia che dal futuro ti corre incontro”, prospettiva che porta ad esaltare il presente nel quale solitamente si pagano i sensi di colpa covati nel passato. Una bella pennellata la dà inizialmente l’incontro con un singolare pastore in papillon, simbolicamente appresso a un gregge ma sostanzialmente alla ricerca di un tempo discontinuo, da vivere di volta in volta come l’ultima volta. Mi pare perciò una ripetizione ansiogena e senza la freschezza del più noto “attimo fuggente”, ennesimo tentativo di trovare nell’hic et nunc non uno stordimento esorcistico ma un inveramento mistico.

Il fatto è che questo tipo di meditazione è in ritardo nel nostro panorama critico, appare piuttosto come un pentimento lussuoso ed inutile che può provenire da chi trascorre la vita senza un vero contatto con la realtà cruda di cui è immagine Palermo brulicante e corrotta, labirintica e informe seppure “viva” ma di una vita che l’Autore coglie nel suo strutturale caos primordiale. Ne è simbolo quel Trionfo della morte che da secoli agita storici e critici con scarsi risultati sempre improntati a invenzioni consolatorie e che, per dirla tutta, se resiste è solo perché un affresco murario è difficile da rubare altrimenti avrebbe preso già la strada della Natività del Caravaggio “perduta” con buona pace di tutti i ben pensanti che schiacciano periodicamente questa città, nata forse col nome di fiore, sull’idea della morte, per mafia o per consunzione come in questo caso. In tal senso il viaggio che conduce il protagonista da Dusseldorf a Palermo ha valore simbolico: la prima è vista attraverso i giovani, la musica, la creatività, la movida ma il senso è che sia vacuità; la seconda mostra anfratti e sporcizia, commistione di uomini e animali e il senso vorrebbe essere di vita. Il viaggio diviene perfino mitico, nel senso che dal cosmos ordinato riconduce al caos originario per ritrovare la vera vita. Operazione ben condotta, in ultima analisi, ma non riuscita. Traendo le dovute conseguenze: Dusseldorf o cosmos o la vita moderna sarebbe la morte in vita mentre Palermo o caos sarebbe la vita ma una vita in morte. Quale futuro può più restare?

(da "Il Vespro" dicembre 2008)




Rubrica di cinema e mostre: Lo abbiamo visto per voi

Giù al nord

di Giampiero Finocchiaro

Chissà quante volte qualcuno si è posto il problema di come parlare di integrazione. Mi pare che, senza volerlo, ci sia riuscito meravigliosamente Dany Boon che è regista e primo interprete di questa esilarante commedia francese dal titolo disorientante “Giù al nord”. E già perché pur essendo tondo, questo nostro mondo un capo ce l’ha, un punto di comando che è appunto il nord magnetico, principio ordinatore di meridiani e paralleli, discrimen tra un alto e un basso culturali e sociali che distinguono tra climi differenti, di luoghi come di anime delle genti di vario colore di pelle e mutabile orientamento religioso. Al punto che pensare al nord è sempre come un’idea di salire o di salvifica ascensione, mentre volgersi con la mente al sud ne ha del discendere che tanto si apparenta con gli inferi, croce e delizia degli umani peccati come delle irresistibili tentazioni.

A raccontare di un nord rovesciato, questo film dai toni garbati e divertenti, felice di un’invenzione narrativa semplice ed efficace, ci riesce senza mai pagare pegno. Complice una delle tante false vetrine del nostro finto mondo di carriere, soldi, sgomitare socialmente (s)corretto, furbizia ed altre prerogative della contemporaneità metropolitana d’Occidente. Un impiegato delle Poste fa domanda di trasferimento presso la sede che l’ente di appartenenza possiede in un’amena località del sud dorato della Francia. Lo spinge un desiderio esplicito della moglie, sua pungolatrice. Lo guida un miraggio di progresso sociale che condurrebbe il protagonista e la sua famiglia da una regione benestante ad un’altra che al benessere economico aggiungerebbe alle loro esistenze anche quella qualità della vita che si può intuire coerente coi suoi presupposti. Prevedibile ma non per questo atteso, a frenare tale legittima ambizione giunge un collega, concorrente “agevolato” dall’handicap che gli riconosce priorità assoluta, com’è giusto che sia, ma senza porsi neanche il problema di una relazione di causa ed effetto tra la condizione di partenza e la situazione di arrivo che darebbe un senso alla priorità, come sarebbe giusto che fosse ma non è.

Stando così le cose, il nostro allora ci riprova, inventandosi una versione delle “pari opportunità” ormai comprensibile seppure illegittima, ottenuta con l’imbroglio di un handicap autodichiarato con la quasi certezza dell’assenza di controlli. Francia e Italia gemelle, verrebbe da dire se non fossi certo di star parlando, percentualmente, di quasi-realtà nel nostro caso e di quasi-finzione in quello d’oltr’Alpe. Dell’esito che ha la commedia si intuisce dall’obbligo intimato al protagonista di trasferirsi immediatamente a Pas-de-Calais, nordica sponda di una Francia che svela gruppi etnici e dialettali inattesi.

In questo luogo di purgatorio si assiste però ad una rinascita dell’uomo a metà tra il nostrano Fantozzi e l’eterna macchietta dell’impiegato medio d’ogni dove. A consentire una lettura di integrazione è il contrasto tra il persistere dei luoghi comuni e il disvelarsi della diversa realtà. Il clima, la gente, il cibo, tutto è visto con la doppia lente del vero e del si-dice. Gli “altri” piano piano si avvicineranno facendo breccia nella crosta dell’io per aprire uno spazio del “noi”, un passo per volta e un passo per ciascuno. Pas-de-Calais riserva sorprese ormai desuete che parlano di solidarietà, amicizia, semplicità e che lasceranno al nuovo ospite-coatto un senso di libertà mai conosciuto prima lasciandoci la certezza che seppure, appunto, desuete non sono tuttavia mai del tutto disperse, sempre ancora recuperabili. Così quando finalmente arriverà l’agognata fine della punizione, il protagonista dovrà ammettere che il proverbio sentito al suo arrivo conteneva una verità: Chi arriva a Pas-de-Calais piange due volte, la prima quando arriva, la seconda quando riparte.

(da "Il Vespro" dicembre 2008)






ultimo aggiornamento della pagina: 23/03/2009

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