di Giampiero Finocchiaro
Quando mi sono proposto di andare a vedere questo film, all’ultimo momento ho avuto una perplessità: una commedia di produzione tedesca? Sapete com’è, si hanno pregiudizi sulla disposizione dei tedeschi al comico e alla commedia leggera… poi la curiosità, come sempre, ha prevalso e sono andato.
La storia è ambientata ad Amburgo dove un giovane cuoco di nome Zinos gestisce una bettola dal pretenzioso nome di “Soul kitchen”, cucina dell’anima sarebbe la sua versione in una letterale traduzione italiana. La clientela è aderente al tono del locale: rozza, volgare. A dispetto della fantasia del nome, infatti, il ristorante non è per palati raffinati. Al contrario. Eppure qualcosa a che fare con l’anima questo locale ce l’ha. Lo dimostra il piccolo universo umano che vi ruota attorno: una fidanzata con aspirazioni di giornalista internazionale, una cameriera intenzionata a fare l’artista, il fratello del proprietario, Ilias, ladro straccione, bugiardo, senza estro e pieno di vizi. Tutte situazioni che permettono al regista di esplorare quell’infinito universo che è l’anima dell’uomo.
Il caso porterà Zinos a rilanciare il proprio locale verso un impensabile successo proprio mentre, sempre per caso, sul futuro dello stesso ristorante si addenseranno le ombre degli appetiti di uno speculatore. La vicenda è ovviamente destinata a ingarbugliarsi per stravolgere l’equilibrio insoddisfacente dell’inizio in favore di uno nuovo tutto da rifare ma colmo di speranze.
Il film è opera di un regista turco-tedesco (ecco che tutto si spiega…), Fatih Akin, che dà centralità al linguaggio dei corpi e ai loro bisogni (il cibo, il sesso, la danza). La realtà multiculturale che propone, inserita in un contesto sociale contemporaneo di cui si colgono i contorni tipici della civiltà urbana, viene resa viva e pulsante col semplice espediente del superamento dei filtri ufficiali (la lingua, i ruoli sociali, etc.). Il risultato è un film piacevole con un ottimo condimento di musica a fare da sfondo della narrazione.
di Giampiero Finocchiaro
Per me è stata un’autentica rivelazione. Non ero andato per vedere la mostra ma per accompagnare ospiti stranieri in quel gioiello che si ostina a restare il nostro Orto botanico, nonostante si trovi a Palermo, impareggiabile regno dell’incuria, luogo di bellezze sfigurate e morenti dove la bruttezza ha allignato come una pianta infestante. Al termine del nostro giro tra le meraviglie delle cactacee e i sentieri affollati di panciute Bombacaceae come il Kapok, incorniciati da succulenti alberi da frutto, ci siamo accorti che al pomeriggio avrebbero inaugurato una mostra dedicata a farfalle e coleotteri. Dov’è – vi chiederete – la rivelazione?
Agli insetti in generale noi assegniamo un posto di eccellenza entro la dimensione del ripugnante. Fissati invece dalla morte (nel loro caso rappresentata da uno spillo che li inchioda a tessere di cartone) in una elegante bacheca, sottratto loro quel rapido e saettante movimento alare o strisciante che ce li rende sfuggenti, inquietanti e potenzialmente pericolosi (a dispetto della diffusa nozione sulla loro bassissima percentuale di velenosità), ecco che i coleotteri rivelano un’infinita varietà di colori e geometrie, di sfumature e disegni che nessuno potrebbe mai immaginare senza avere davanti agli occhi un campionario ricco e ben articolato come quello proposto dalla mostra curata da Vittorio Aliquò. E la rivelazione consiste nella scoperta che la bellezza in natura si rivela dappertutto, persino nelle forme di vita che per pregiudizio riteniamo ripugnanti.
Sono presenti esemplari provenienti da ogni parte del mondo, di ogni dimensione, di ogni colore. Una bacheca propone un confronto tra il coleottero più piccolo (delle dimensioni di una testa di spillo) e quello più grande al punto che, come recita la didascalia, occorrerebbero 16.000.000 di esemplari del primo tipo per ottenere un volume pari a un solo esemplare del secondo tipo. Provate a immaginare una persona grande come sedici milioni dei suoi simili, o anche solo di neonati, e capirete quanta biodiversità (questo infatti il tema della mostra) esiste nel regno degli insetti.
Tra i più stupefacenti non si può tacere di un coleottero dal capo di colore rosso metallizzato e dal corpo elegantissimo grazie ad una colorazione crema cui si abbina un raro viola. Davvero una inesauribile fonte di ispirazione per creatori di moda e persino per gli orafi che nelle forme di questi insetti trovano singolari movimenti di autentica bellezza.
La mostra è organizzata dal Dipartimento di Scienze Botaniche entro un programma di eventi programmati per l’Anno mondiale della Biodiversità. È ospitata nel padiglione Tineo dell’Orto botanico, in via Lincoln 2, e resterà aperta fino al 31 marzo. Da non perdere.
di Giampiero Finocchiaro
C’è una triste realtà in questo Paese ed è quella che racconta dello scollamento ormai forse irrecuperabile tra realtà e finzione. Ciò che conta è un apparire vuoto e becero che si è sostituito all’essere e alla verità. E non è più né Pirandello, né Kafka ma una cosa molto più modesta e umiliante e che racconta di un paese orgoglioso dell’ignoranza, partecipe della volgarità, dedito alla frode in ogni sua espressione.
Di questo sconsolato quadro offre Pupi Avati una rappresentazione in forma di commedia con questo suo nuovo film. La vicenda si apre col racconto di un imbecille, interpretato dal bravo Christian de Sica, che abbandona moglie e figli rubando loro quelle poche proprietà immobiliari che gli consentiranno di avventurarsi nel mondo degli affari affollato di pupi, ballerine, mentecatti, speculatori e tutto quello zoo di incompetenti ladri e bugiardi che costituisce il tessuto di un’economia fradicia troppo diffusa per illuderci del salvataggio del Paese. Con l’aiuto di un pentito seminarista, anche lui intento al riscatto sociale (entrambi con genitori di umili origini) e deciso a ogni misfatto e compromesso pur di scalare il successo fatto di soldi e sterco, costruisce un impero economico che dopo una stagione di favore ottenuta col ricatto la corruzione e la complicità di altri buffoni della corte delle istituzioni, crolla con effetto domino.
Un tentativo di salvataggio consiste nell’ultima finzione del trasferimento delle proprietà al figlio più piccolo mai più rivisto dal giorno dell’abbandono, un figlio ingenuo e un po’ tocco, incapace di vedere il marcio al contrario del fratello che nutre disprezzo per il padre assente. Altri personaggi fanno da cornice a questa assurda storia vera, storia quotidiana, storia italiana. Il limite del film sta nella vacuità della realtà che racconta perché di suo, invece, il racconto cinematografico è apprezzabile per il tono onirico che riesce a dare offrendoci per un paio d’ore la sensazione che si tratti di cose dell’altro mondo e non di ordinarie storie di casa nostra…
Michael Zadoorian, In viaggio contromano, Marcos y Marcos, 2009
di Giampiero Finocchiaro
Nella folta boscaglia di libri con una dominante di bianco e di nero, spiccava questo testo dalla copertina di un giallo improbabile con sopra il disegno di un piccolo camper rosso e double-face sottolineato da una svirgolata tipica dei fumetti. Così l’ho preso e il contatto con il cartoncino morbido della copertina e la carta porosa dei suoi fogli interni mi ha invogliato a prolungarmi. “Noi siamo turisti. Ho finito per farmene una ragione”. Strano inizio, mi sono detto. Che ragione ci si può o ci si deve fare di una cosa così normale come l’essere di tanto in tanto turisti? Evidente che qui non si gioca una partita sullo svago, evidente che c’è dell’altro. Ma che cosa?
Per scoprirlo bisogna leggere questa divertente avventura di due molto anziani signori che contro ogni consiglio medico si mettono ancora una volta in viaggio col camper che li ha accompagnati per tutta la vita. Destinazione: Disneyland. Già, un modo per tornare indietro nel tempo, quando i viaggi erano accompagnati dalle vivaci urla dei due figli, ora grandi e maturi al punto da essere loro noiosi e ansiosi e preoccupati per quei due “vecchi” che si credono ancora di poter fare cose da giovani. Eppure Ella e John, ottantenni e malandati, con seri problemi di deambulazione lei e di Alzheimer lui, si fanno tutta la mitica Route 66, riattraversando tutto il paese da est a ovest, cogliendone i cambiamenti e gli abbandoni, ma giungendo infine alla meta.
L’epilogo è di una tenerezza assoluta, un esempio di quella amorevolezza che rende gentili, solidali, vicini alle persone che si amano e al mondo e alla vita come necessari complementi. La scrittura è comoda e la lettura risulta di facile impatto. Non vi dirò nulla del finale ma non voglio tacere che mi ha commosso.
di Giampiero Finocchiaro
Questo film di Francis Ford Coppola non è un film semplice, ma è davvero bello. La storia si snoda apparentemente senza particolari difficoltà, un giovane, conosciuto come Tetro, “divorzia” dalla propria famiglia per la presenza troppo invadente del padre, musicista di fama mondiale interpretato dal sempre bravo Klaus Maria Brandauer, il cui ego non può lasciare spazio a nessun altro. Cerca di riannodare i fili Benjamin, il fratello minore che costringerà l’altro a fare i conti col passato e a mettersi alle spalle tutto ciò che ancora non aveva risolto.
Interessante è la scelta di utilizzare gli appunti di un libro mai pubblicato da Tetro che il fratello Benjamin recupera con l’aiuto della ex psicologa di Tetro e ora sua compagna di vita, per ricostruire la vicenda al passato. Sono appunti redatti come usava Leonardo Da Vinci, scritti al contrario, a simboleggiare una specularità tra racconto e ricordo che si sovrappone a quella tra realtà e finzione. I critici hanno infatti letto molti elementi autobiografici in questa pellicola sebbene l’autore nel negarlo abbia però affermato che “è tutto vero”. C’è senza dubbio la riflessione di un uomo e autore maturo che probabilmente si chiede se questa sua enorme presenza non abbia nel chiuso della sua famiglia creato problemi ai figli, una riflessione carica di voglia e capacità introspettive, quasi a voler cercare rimedi prima che il male si imponga in modo assoluto.
Certamente riuscita la scelta del bianco nero che unitamente al taglio delle inquadrature e all’uso delle luci suggerisce un’estetica da fumetto classico. I personaggi vi appaiono come scolpiti e così le loro vicende, le loro parole, i loro sentimenti e le emozioni che vivono prendono lo spessore della pietra lasciando allo spettatore la sensazione di avere preso parte al racconto e consegnandogli una riflessione su di sé che agisce con un effetto domino.
Adam Phillips e Barbara Taylor, Elogio della gentilezza, Ponte alle Grazie, 2009
di Giampiero Finocchiaro
Se ne stava nascosto, inserito in uno scaffale alto, spalla a spalla con tanti altri libri, di quelli che non si offrono sui tavoli, nelle vetrine. Insomma, uno dei tanti libri che popolano le librerie ma che non hanno il vantaggio delle strategie commerciali. Si tratta, per di più, di un saggio scritto a due da uno psicoanalista e una storica. Il fatto è che l’occhio è stato attirato da una parola assurda, dimenticata, inesistente ormai, adoperata solo per mettere in guardia da ciò che essa significa: gentilezza. Il suo elogio, dunque, risuonava come un richiamo.
Nel tempo dell’individualismo, la gentilezza è percepita come una forma di debolezza e questo nasconde aspetti che lo psicoanalista chiarisce nella sue complesse diramazioni e la storica illustra alla luce di un percorso storico e culturale. Il fatto è che tutto nella nostra era ha preso una piega di volgarità assoluta. La televisione amplifica e propone questa volgarità che è cominciata dall’associazione volgo=massa. L’esigenza di coinvolgere le masse nei processi del liberismo economico (e senza correttivi) ha fatto sì che nessun filtro fosse più dotato di senso, valendo soprattutto la capacità di spesa e acquisto come criterio distintivo ed elettivo delle persone. È per questo che clamorosi imbecilli, uomini e donne, affollano di pareri e sentenze il panorama pubblico. Ed è per questo che orde di barbari, cafoni oltre ogni storico precedente, lottano con la ferocia degli stolti per occupare luoghi di pubblica dissipazione, angoli di privilegio, spazi di facile ricchezza e che importa se c’è da eruttare o mostrare le terga, tanto è ormai codice condiviso.
Può dunque esserci spazio per la gentilezza? Dove? se non entro gli umilianti confini dell’interesse personale, taciuto, nascosto, mascherato naturalmente. Ma quella, invero, non è gentilezza, una forma, piuttosto, di violenza mimetizzata. Così le relazioni sottendono sempre conflitti e preparano esplosioni.
Questo saggio aiuta a comprendere e forse può dare una mano a invertire la rotta se si è capaci di assumere per se stessi una scelta senza attendere, presuntuosamente, che prima cambi il mondo perché si possa cambiare noi.
Leïla Marouane, Vita sessuale di un fervente musulmano a Parigi, edizioni e/o 2009
di Giampiero Finocchiaro
Quando dico che il piacere della lettura comincia da curiosare tra i tavoli e le scaffalature delle librerie intendo proprio questo piacere e divertimento dello scoprire qualcosa che ci attiri. Può essere una copertina, la grafica o i colori, il formato del libro, la consistenza della carta e poi la lettura della prima pagina o di qualche brano a saltare, e così via. E poiché ogni libreria ha le sue geometrie, ecco che non fermarsi in una soltanto aiuta a scoprire ciò veramente appartiene al lettore senza il condizionamento che editori e librai operano con il loro marketing. Un paio di settimane fa sono entrato in tre librerie, solo nell’ultima ho trovato questo divertente testo di un’autrice algerina che vive in Francia e che ha pensato di raccontare i pruriti di un musulmano quarantenne finalmente deciso a separarsi da mammà. Grazie ad una promozione che lo mette nelle condizioni di potersi permettere un lussuoso appartamento nel ricco quartiere di Siant-Germain-des-prés, il protagonista vagheggia amori e relazioni che appaghino il suo troppo a lungo contenuto appetito sessuale. E qui la sua vita si complica. Da una parte, infatti, la madre in tutto assimilabile alle mamme nostrane lo tiene sotto il giogo del senso di colpa ricordandogli che finché non si sposerà – con una musulmana, per carità! Ma in fondo una qualunque andrebbe bene… – neanche il secondo genito potrà farlo e dall’altra la sua ricerca di donne occidentali si esaurirà in una serie di fantasie inappagate che lo faranno approdare soltanto a storie con donne delle sue parti. Il suo tentativo, dunque, di occidentalizzarsi anche mutando l’aspetto fisico, si rivelerà un effetto boomerang dalle conseguenze imprevedibili che infatti non vi dico per lasciarvi il piacere della lettura.
Il libro è decisamente divertente e solo in un paio di episodi l’analisi descrittiva dell’autrice si spinge a particolari che potrebbero turbare i lettori meno disinibiti ma nel complesso è una lettura piacevole che offre la possibilità di trascorrere un paio di ore sorridendo e apprendendo aspetti dell’Islam che aiutano ad avere una visione dei fratelli musulmani più corretta. Basterà fra tutti il versetto Lakum dīnukum wa liya dīni che sostanzialmente dichiara “che le religioni possono mescolarsi tra loro senza nuocersi reciprocamente”.
di Giampiero Finocchiaro
Esiste una analogia tra la musica e l’amore: sembrano pochi gli elementi costitutivi dell’una come dell’altro eppure le combinazioni sono infinite. Talvolta sorprendenti. Così è per esempio la storia di Angela e Sara che tra il finire dell’Ottocento e i primi del Novecento, prigioniere di un’Isola siciliana ancorata a modelli patriarcali che ormai ci appaiono bestiali, tentano di affermare un amore insolito, un amore diverso, un amore insano perché non canonico eppure amore con la A maiuscola. Tanto da riuscire a superare i luoghi comuni, le ipocrisie che coprono vergogne abominevoli ma protette dalla parvenza sociale, l’ostilità rancorosa generata dall’invidia, la stupidità partorita dal mostro dell’ignoranza, pur di restare unite in un abbraccio che anche mostrando l’aspetto carnale, passionale ed erotico non disturba proprio per la bellezza del sentimento sincero e puro che lo sostiene. La volgarità è tutt’intorno ma è solo un mare di fango che si sgretola di fronte all’impeto di un desiderio che ha la stessa storia della vita delle due ragazze. Angela vestirà altri panni pur di ottenere Sara ma non sarà una scelta pienamente libera, succube di un padre orco che naturalmente pagherà la sua posticcia rigidità facendosi scoprire protagonista di un turpe inganno…
Da segnalare per l’intensità emotiva la fotografia e le location, tutte nella zona di San Vito Lo Capo (la tonnara in particolare) ma non sarebbero niente senza la bravura della palermitana Isabella Aragonese (la bella Sara) e quella della venezuelana figlia di un siciliano Valeria Solarino (la bellissima Angela). È un piacere solo guardarle e apprezzare la disinvoltura con cui raccontano le rispettive parti, così intense da destare continuamente l’interesse dello spettatore. Le sostiene un Ennio Fantastichini che è facile dire “fantastico” nel ruolo del cavernoso “padroncino” e il film riesce ad emozionare nonostante alcune incertezze narrative che la regista messinese Donatella Maiorca lascia scoperte qua e là pagando forse un pegno alle esperienze televisive con cui ha preparato questo suo primo salto nel cinema vero.
di Giampiero Finocchiaro
Confesso che ho sempre stimato Pedro Almodovar. Mi piacciono lo stile e il ritmo delle sue narrazioni che sanno muoversi in una dimensione a metà tra il sogno e la realtà, in quello spazio dove la razionalità non perde l’iperbole che la fantasia, da sola, conduce senza meta. Avrà forse inciso il fatto che, appena sedicenne, si trasferì a Madrid per studiare cinema ma si vide chiudere la scuola dal dittatore Franco. Così la sua personale visione dovette subito misurarsi con la personale missione del generalissimo… Non stupirà, allora, che il territorio di indagine di questo singolare regista sia il multiforme labirinto delle passioni e dei sentimenti, scandagliato senza reticenze né convenzioni così che vi abbondano i temi scandalistici e provocatori visti in una chiave decisamente progressista, mirata a spostare in avanti le barriere del perbenismo e a demolire quelle dell’ipocrisia. Sono perciò estremamente indicativi i titoli dei suoi film: Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio (1980), Labirinto di passioni (1982), L’indiscreto fascino del peccato (1983) e tanti altri fino ai recenti Volver (2006) e Gli abbracci spezzati, entrambi con Penelope Cruz nel ruolo principale.
La storia degli abbracci spezzati racconta una storia d’amore. Lui è un regista e sceneggiatore, lei una ex aspirante attrice che si è adeguata presto al lusso offertole da un ricco e anziano imprenditore. Per farla contenta questi finanzierà un film le cui riprese offriranno l’occasione, al regista e all’attrice, di innamorarsi. Si tratta di un amore destinato a finire in modi e tempi che non sorprenderanno i telespettatori ma è bravo il regista a dosare il racconto per il tramite di un salto temporale che vede, anni dopo, lo stesso regista riesumare la storia per un ragazzo la cui identità sarà il colpo di scena finale.
Non è il più originale dei film di Almodovar ma anche questo non manca di farci riflettere sulle sovrastrutture culturali che complicano i nostri sentimenti negandoci quella pienezza che riconosciamo essere vita ma senza saperla vivere. In questa prospettiva l’amore e il coraggio sono i due lati di una stessa medaglia. Da segnalare la tecnica registica che sa sovrapporre la narrazione filmica e il suo artificio in un gioco di svelamenti e rimandi che compongono insieme la trama complessiva. Il film è da vedere.
Tris di donne & abiti da sposa
di Giampiero Finocchiaro
Questo film di Vincenzo Terracciano racconta una banale realtà, quella delle persone che pur vivendo con il poco dello stipendio come della pensione, sciaguratamente si assoggettano al vizio del gioco come ad una speranza di riscossa che tragicamente li trascina sempre più in basso. Il regista compie un lavoro di realismo per cui la banalità di cui dico non è una colpa da imputare a lui quanto piuttosto il tratto caratterizzante la vicenda umana impersonata dal protagonista che è il sempre bravo Sergio Castellitto.
Franco Campanella ha una moglie tedesca, un figlio maschio volenteroso ed una amabilissima figlia femmina che a breve andrà in sposa. Il desiderio impotente di darle nozze sontuose si trasforma in un avvitamento che lo conduce sempre più giù, tirando con sé la famiglia a cui porta un amore sincero ma colpevole della mediocrità che lo definisce. Il personaggio è il simbolo di quella triste umanità fatta di anonimi stolti che popolano le ricevitorie e le sale scommesse, figure grigie, untuose, miserabili nei modi come nell’anima, che sostano per ore ed ore in luoghi sporchi come la loro coscienza e bui come la loro intelligenza. Attorno a questo circo di nervosi pusillanimi si muove il ridicolo mondo della delinquenza che controlla, gestisce, sollecita, adula e danna i suoi debitori. La vicenda si svolge a Napoli che è doppio di tutte quelle città meridionali dove l’illegalità è lo sfondo comune di tutta la vita sociale. Il film, in sostanza, potrebbe essere un “trionfo della mediocrità” se non fosse che non vi saranno allori per protagonista né per i suoi cari, piuttosto…
Da segnalare per la bruttezza didascalica e fuorviante il titolo, Tris di donne e abiti da sposa. Il contesto entro cui si muove l’azione drammatica è appena accennato, pochi rapidi riferimenti giusto per inquadrare il protagonista. In tal modo non vi è spessore sufficiente per rendere evocativo un titolo che vorrebbe giocare sul valore che il tris di donne assume nel poker come sulla presenza di tre personaggi femminili e tantomeno per dare senso compiuto agli abiti da sposa come cifra dell’imminente rovina. Ma forse il titolo restituisce proprio quel senso di mediocrità che il film racconta…
di Giampiero Finocchiaro
Non vedevo da tempo una commedia brillante e divertente come questa di Luca Lucini. Si trascorrono due ore di una leggera allegria che riesce a fare a meno della volgarità cafona che è diventata il marchio di quasi ogni comicità come di ogni aspetto della nostra vita basata sulla spudorata scurrilità dei media e dei loro protagonisti.
La storia è già di per sé un invito alla risata, basandosi sui percorsi intrecciati di otto personaggi che attraverso varie vicissitudini giungeranno a formare quattro coppie. Naturalmente tra i personaggi coinvolti esistono differenze notevoli che sono il sale di ogni dinamica narrativa e così si ha tempo di scoprire ed apprezzare lo sforzo di un giovane poliziotto di famiglia terragna e meridionale della bella campagna pugliese alle prese con una bellissima indiana a cui il padre, ambasciatore sideralmente distante dal consuocero contadino, vorrebbe imporre un rito matrimoniale indù. Esilaranti le scene in cui il patto matrimoniale si trasforma in una trattativa con stile da mediazione internazionale per unità di crisi politico-diplomatiche. Fanno invece tenerezza i due giovani a cui il difetto di possibilità economiche non inibisce una furba arte dell’arrangirasi che gli consente di organizzarsi il matrimonio alle spalle e all’insaputa di due vip, emblema dell’ipocrisia e della trivialità del cosiddetto belmondo, impegnati in una medesima promessa ma sui quali peserà un’ipoteca che scoprirete andando a vedere il film. Chiude il quartetto una coppia caratterizzata da una giovane e avvenente venticinquenne ed un ricco signore milanese il quale ha un figlio rigoroso magistrato. A tutti la vita presenterà una sorpresa inattesa…
È certamente un film da suggerire e non soltanto per lo spasso che procura ma perché sa anche affrontare temi importanti, primo fra tutti la tolleranza verso ogni forma di diversità, dentro cornici che alla dimensione punitiva sostituiscono quella propositiva. Tutti i personaggi, infatti, sanno compiere un passo indietro quando si rende chiaro che il bene dell’altro passa attraverso la rinuncia di un pezzetto di sé.
Valeria Parrella, Lo spazio bianco, Einaudi 2008
di Giampiero Finocchiaro
Faccio fatica a definire romanzo questo testo da cui è stato tratto un film che non ho ancora visto. Ne è protagonista una non troppo giovane mamma a cui capita di dare alla luce un figlio con tre mesi di anticipo. Si intuisce subito che “spazio bianco” è questo luogo-attesa che conduce neonati prematuri e ansiose mamma verso la certezza della vita, in una sospensione che mischia le carte fra la vita e la morte, la speranza e il dolore, il desiderio e la rassegnazione. E ne è cornice intermittente, in aggiunta al reparto di terapia intensiva di un ospedale napoletano, una realtà scolastica di educazione per gli adulti che non convince perché difettosa di quella verosimiglianza che non urge alla realtà ma si impone a certi aspetti della finzione narrativa. E tuttavia il libro ha una sua densità di meditazione che offre uno spunto nettamente femminile di pregio se non altro perché rivela zone dell’anima inusuali, come quando, ricordando l’inizio del dramma della nascita prematura, osserva: Quando il dolore mi aveva sorpreso non gli avevo creduto. Credo che un uomo non avrebbe saputo osservarlo e, tantomeno, ammetterlo.
Enzo Antonio Conigliaro, Sospirando il paradiso, Autorinediti 2009
di Giampiero Finocchiaro
Mi piace segnalare all’attenzione dei miei lettori questo romanzone uscito dalla memoria di un carinese la cui biografia segue un cliché ancora, ahimé, fortemente pregnante nella realtà locale. Pochi studi, difficoltà economiche familiari, una vita di lavoro. Per fortuna il suo è un esempio positivo perché al difetto di studi ha sopperito con le letture e alle difficoltà economiche con l’onesto lavoro che gli ha via via portato una condizione di serenità. E in questa cornice si inserisce la sua fatica narrativo che racconta la pagina epica della prima guerra mondiale. Lo fa da un punto di vista interessante perché la trama, al di là della storia d’amore tra Rinaldo e Filomena, si nutre di presenze singolari come quella delle donne addette al servizio di portatrici dei feriti. In questa prospettiva Conigliaro propone un intero mondo popolato di personaggi e “categorie” e con ciò facendo offre una visione della storia meno accademica e più vissuta, scritta, per dirla con le sue stesse parole, “come avrei preferito che mi fosse stata insegnata la storia dell’intervento italiano nel primo conflitto mondiale, a ragione definito un gigantesco tritacarne”.
Mi ha anche colpito la scintilla che ha fatto scoccare l’idea del romanzo. L’autore ha semplicemente notato l’indifferenza con cui un giovane lanciava dietro di sé una bottiglia scolata fino in fondo e andata a frantumarsi contro un monumento ai caduti. Quell’estraneità di uno dei tanti cafoni che ormai circolano senza vergogna rispetto a un simbolo del’Unità d’Italia che aveva portato giovani come quello a morire, ha fatto pesare l’abisso che separa il mondo ricco di valori (e quindi anche di peccati) del Novecento da quest’epoca di villani senza meta. Così, dietro la storia che Conigliaro racconta, ci sono domande che pesano come macigni e che riporto con le stesse parole che l’Autore ha usato quando ne abbiamo parlato: “Chi ha completato l'unità del nostro Paese? Quali erano i loro sogni ed i loro desideri? Ma soprattutto: a chi hanno lasciato in eredità il frutto dei loro sacrifici?”…
Carlos Ruiz Rafon, Marina, Mondadori 2009
di Giampiero Finocchiaro
Pur essendo uscito per ultimo, si tratta in realtà del primo libro di Carlos Ruiz Rafon divenuto celebre per il romanzo “L’ombra del vento”. Non voglio fare confronti e perciò mi limiterò a dire che l’affetto speciale che l’autore nutre per questo testo pubblicato in altre e minori vesti dal 1999 in poi, spiega la sua presenza nella programmazione Mondadori.
La storia racconta di un adolescente orfano che con un certo grado di libertà si trova a convitto presso un istituto religioso della Barcellona degli anni Ottanta. La solitudine e la curiosità lo metteranno in contatto con una singolare coppia formata da un padre, Germàn Blau, e sua figlia, Marina, che vivono in una antica villa un po’ in abbandono ma ricolma di memorie e suggestioni e che diventeranno la provvisoria famiglia del protagonista, Óscar.
Sulla scorta di alcuni indizi comincerà a dipanarsi un intreccio di cuori ed affari che riaprirà una pagina di fasti e speranze ma anche di invidie e risentimenti sotterranei della Barcellona d’inizio Novecento, quando ancora predominava il fascino di un’architettura gotica incline al passato più che al futuro com’è invece, grazieadio, oggi. Tra Óscar e Marina si andrà delineando una delicata e infantile storia d’amore che avrà il suo più nutrito corrispettivo in quello tra il geniale e poi malefico dottor Kolvenik e la sua adorata vittima la cantante Eva Irinova ma anche in quello oscurato da una malattia tra Germàn e la moglie Kirsten, anche lei cantante lirica a cui il marito aveva dedicato i suoi ultimi lavori di famoso pittore. Il desiderio di ridare la vita a ciò che l’ha perduta conduce Kolvenik a deliranti propositi ed esiti su cui per caso la curiosità adolescente di Óscar finisce col far luce dopo l’insuccesso, decenni prima, della ordinaria gendarmeria. La cornice è tinta dal nero di creature mostruose e di atmosfere ferali, notturne e sotterranee. Nel complesso, pur toccando temi come il giusto rapporto tra la vita e la morte, il romanzo contrae un’ipoteca con la letteratura di genere fantastico che alimenta il popolato e terrifico mondo dei mostri.
di Giampiero Finocchiaro
Sono andato al cinema un po’ preoccupato per la durata di questo film lungo tre ore. E più ancora perché non avendo seguito le innumerevoli anticipazioni, volutamente non mi ero fatto un’idea del film. Temevo perciò si trattasse del classico colossal nostalgico e melenso in cui una musica struggente fa rimpiangere il bel tempo andato. Invece ho trovato un film anzitutto divertente. Questo deve essere chiaro: si ride e con gusto. Concorrono i volti di questo enorme cast siciliano arricchito dai visi meridionali di brave attrici come Lina Sastri e Angela Molina e attori come Vincenzo Salemme. I personaggi sono affidati con cura alle facce note di Salvo Ficarra, Valentino Pedone, Aldo Baglio, Lollo Franco, Luigi Burruano e poi ancora Nino Frassica, Leo Gullotta, così che il nostro immaginario, saturo di ilarità reduce della carriera personale di questi attori, si travasa nel dramma di Giuseppe Tornatore con quell’atmosfera mista di tragedia e pura comicità che è il timbro più autentico della sicilianità quando si fa arte, rinunciando al ruolo pezzente della lamentela e del vittimismo. Ma non vanno dimenticati gli altri attori siciliani come Enrico Lo Verso, Luigi Lo Cascio, Donatella Finocchiaro, Tony Sperandeo, Beppe Fiorello, né il contributo di Michele Placido, Gabriele Lavia, Raoul Bova e davvero tanti altri che è difficile annoverarli tutti.
La storia si riduce a questo: un omaggio alla città natale del regista che si fa metafora della storia del Paese nel Novecento, secolo ricco di farse che hanno saputo grondare il sangue della tragedia. E della farsa mantiene intatto, per tutta la durata della vicenda del protagonista che da bambino si fa vecchio, il sapore della disfatta ridicola che ci ha resi parvenza di ciò che eravamo e velina insignificante di ciò che avremmo potuto essere. La storia dell’Isola, d’altra parte, è proprio questa: una lunga sequenza di atti incompiuti, di sfide perdute, di coraggio smarrito, di resa totale e incondizionata con conseguente sprofondamento nell’abisso della povertà di intelletto, di cuore, di futuro. Scene paradossali, che qui da noi rappresentano la normalità, attraverso la finzione filmica ci restituiscono invece il senso della loro assurdità e ci aiutano a comprendere quanta distanza abbiamo messo tra noi e la verità, ci fanno ridere perciò di un riso esorcistico che vince anzitutto la paura di riconoscerci in quello che siamo diventati: palle da biliardo che schizzano impazzite dovunque càpiti, senza meta, senza ragione, senza obiettivo. In questo senso il gioco di rimandi temporali che il film propone costituisce una chiave narrativa di grande effetto e abilità, tale che ben si potrebbe dire che probabilmente questo film occuperà per sempre un posto particolare nella storia artistica di Giuseppe Tornatore.
Margareth Mazzantini, Venuto al mondo, Mondadori 2009
di Giampiero Finocchiaro
Il titolo di questo libro allude chiaramente all’evento della nascita, la cornice entro cui ciò avviene è però quella della morte o, peggio, quella della guerra. Una delle più recenti e sanguinose, i cui contorni di terrore e vergogna sono ancora da disvelare per intero: la guerra civile della ex Jugoslavia.
Sarajevo, città simbolo degli orrori e degli abissi di crudele stupidità di quel conflitto, è la città in cui una giovane studentessa, Gemma, si reca per un lavoro legato alla tesi di laurea prima del 1991. Qui conosce per la prima volta Gojko, non a caso poeta bosniaco sempre diviso tra le preoccupazioni del vivere quotidiano e gli slanci artistici, che per tutta la durata del romanzo sarà il suo Caronte, delle bellezze prima e delle nefandezze durante e dopo la guerra civile. Qui conoscerà l’amore passionale per Diego, un giovane reporter che la guerra le porterà via in un’onirica discesa agli inferi. Lei, afflitta dal problema di dare alla luce un figlio, non potendo seguire le vie della natura, andrà via via cercando alternative che la condurranno a quella torbida dell’affitto di un utero. Questo il motivo del ritorno a Sarajevo, fatalmente giusto all’inizio del conflitto etnico. Il rapido dissolversi di ogni forma di civiltà e di rispetto delle regole la porterà all’estrema soluzione di cedere il suo Diego alla tenebrosa Aska, farneticante trombettista in cerca di un sogno o di un futuro o di un passaggio per un altrove qualunque. E la gestazione di questo nascituro seguirà di pari passo lo sgretolamento della civiltà bosniaca della tolleranza religiosa sotto i colpi dell’assurdo delirio egemonico delle diverse etnie, furenti di un’ubriacatura nazionalista che decapita ogni raziocinio e aizza i cani dell’odio e della ferocia disumana.
Il romanzo intreccia varie storie perché ciascuno di noi, nell’arco della propria vita, assume e diventa diverse storie. Sono i periodi che compongono la nostra esistenza a dettare fisionomie e cambiamenti che di fatto ci rendono diversi a noi stessi, a quello che siamo e a quello che eravamo, come un succedersi di personaggi che tutti insieme però ci definiscono in un’unità insondabile ma alla fine rivelata. Così non vi dirò certo come evolve questo testo scritto con una sapienza descrittiva che è raro trovare oggi in questo panorama di immensa voracità editoriale che pubblica, come vomitasse, ogni cosa che ingurgita. In questo Paese dove pochi leggono e un’incomprensibile moltitudine di parolai scrive, vi sono tuttavia molti narratori di valore ma ben pochi sono gli scrittori. Margaret Mazzantini è una di questi pochi ultimi e ci offre spesso spunti di riflessione come quando dice: Invecchiando si può di colpo diventare avari di se stessi, aridi con il mondo, perché niente ci ha davvero ricompensati; o quando osserva che: in ogni città, a saper cercare, c’è un luogo che ricorda la guerra; o ancora: Le donne sanno nascondersi, seppellirsi, come la terra di notte, però al momento di partorire vengono fuori come denti nel buio, è lì che viene fuori l’anima, il coraggio; o, infine, sottolinea che: il male si mette in file, in branco, perché è vile.
Da segnalare infine, che la lingua dell’Autrice presenta una fertilità immaginifica che porta con sé sonorità poetiche che ne costituiscono un elemento di pregio per chi possiede un’adeguata conoscenza della lingua italiana. Dalla lettura delle recensioni diffuse su questo testo da blog e siti di varia natura, capisco che il lettore abituato al linguaggio grossolano della strada prova irritazione per questo romanzo ma perché sostanzialmente non riesce a superare lo scoglio della comprensione. Nessuno ha il potere di decidere che un romanzo è buono solo se si spalma linguisticamente sulla triviale mediocrità contemporanea. “Qualcosa che tutti possano capire” è un alibi per spacciare immondizia. In tal senso il romanzo della Mazzantini è una bella sfida, aperta a quei “migliori” che il nostro Paese continuamente seppellisce sotto l’ipocrisia.
Alex Ppov, Missione Londra, Voland 2008
di Giampiero Finocchiaro
L’editore Voland cura un particolare interesse per autori che provengono da realtà europee non proprio al centro della generale attenzione però. Recupera così testi che possono rappresentare autentiche scoperte, il cui merito resta comunque nel gradimento del pubblico al di là di quello indubbiamente spettante all’editore. Mi è perciò capitato, rovistando in libreria, di imbattermi in un libro che non conoscevo, non sostenuto da grandi gruppi commerciali, non accecato dai riflettori della notorietà costruita dal marketing. Insomma, era un libro su uno scaffale. E io l’ho aperto.
Il ritmo leggero e frammentato offre subito un accesso al testo possibile per chiunque, persino per chi non abbia letto un libro negli ultimi vent’anni. Non sempre questo è un vantaggio o un merito ma in questo caso lo è perché l’autore non è propriamente uno scrittore ma un abile sceneggiatore. A comporre una storia divertente e a tratti esilarante convergono più storie che fatalmente si incontreranno per creare una tragedia che naturalmente sarà comica, con risvolti perciò poco prevedibili. È cornice di tutto l’ambasciata bulgara a Londra dove convergono vari personaggi, dall’ambasciatore all’addetto militare, dallo stagista alla moglie di un potente politico bulgaro, eccetera. Ciascuno è animato in diverso modo da un identico disperato tentativo di approfittare della presenza a Londra per togliersi di dosso quel che di peggio avvertono del loro passato i bulgari schiacciati dalla “cortina di ferro”. Siamo infatti in epoca recente, quella caratterizzata dall’entusiastica apertura europea a tutti i paesi provenienti affamati e assetati dalla frantumazione del delirio comunista sovietico. E si percepisce, con la risata sempre in agguato, quel cercare uno sdoganamento che solo può passare, almeno inizialmente, da un adeguamento ai modelli imperanti altrove. Vi è perciò la ricerca di occasioni mondane e la costruzione di eventi che non sfuggono agli appetiti dei più scaltri occidentali che sanno lucrare su questa fame di avvicinamento che estingue le poche risorse dei paesi dell’est.
Quel che ne viene fuori è comunque una commedia umana dolorante, ricca di tipi che insieme recitano la vacuità di una vita centrata sul successo, sul denaro, sulla facilità di accesso ai ruoli sociali importanti e su un’altra miriade di sciocchezze divenute di cruciale importanza nel nostro modello di vita contemporaneo. Ecco, dunque, che l’incarico del nuovo ambasciatore Varadin è messo in pericolo dalla pretesa di Devorina Seljanova, moglie di un potente politico bulgaro a cui deve la sua nomina, di avere la regina Elisabetta ospite di una delle cene di beneficenza che organizza per rivaleggiare, però, con le mogli di altri due importanti politici; collateralmente vi saranno un cuoco furbacchione e chiassoso che si metterà nei guai per una partita di anatre la cui provenienza da uno dei giardini di Sua Maestà metterà a rischio i delicati equilibri che in quegli anni si vanno tessendo tra Ovest ed Est della nuova Europa…
Insomma, il legame tra le cose più banali e quelle che a noi semplici cittadini appaiono più importanti si rivela in questa divertente storia frutto di una casualità che aiuta a ridimensionare il valore che affidiamo alle cose che rendono la nostra vita più amara.
“Look both ways” (Amori e disgrazie)
di Giampiero Finocchiaro
La locandina di questo film mostra il titolo al centro di un cartello stradale giallo (di pericolo dunque) con in apice un pescecane e in pedice un treno. Chiaro che il primo da Spielberg in poi sia diventato simbolo di morte, meno chiaro forse che il treno è sempre metafora della vita. Metafora che con garbo Sarah Watt, brava regista di questo lungometraggio di produzione australiana, dipana quasi un fil rouge per tutta la narrazione intessuta appunto di morti, disgrazie, umori e, tutto sommato, pregna del senso della vita.
Apparentemente storie di vita slegate si intrecciano, nei pressi di un treno o di una ferrovia, con la casualità che la quotidianità svolge: una donna torna dal funerale del padre, un uomo viene ucciso da un treno, un altro apprende la sua condanna per causa di un cancro e via dicendo. Di corredo, dall’altra parte, qualcuno è oppresso dal senso di colpa, un’altra distrutta dal dolore e così via. Continue immagini della morte, alleggerite da una grafica fumettistica – ispirata dalla protagonista, disegnatrice di professione – scorrono divenendo talvolta frenetici blob che ci restituiscono l’orrore di una vita, la nostra contemporanea, così ricca di occasioni di morte anonime e casuali da indurre più che al panico e al solipsismo alla gioia della vita stessa, che è un regalo che dobbiamo preservare conferendogli un senso. E il senso è tutto nella nostra capacità di vedere il lato positivo, è tutto nella forza con cui pur notando il dramma e la tragedia che ci circondano sappiamo non rinunciare al bello, al sentimento, al valore di questo immenso dono che è la vita stessa. Non facile, talvolta, quando tutto sembra crollarci addosso, ma sempre possibile e come tale irrinunciabile. Questo il messaggio di Sarah Watt al suo esordio cinematografico che ha avuto consensi estremamente positivi fin dalla sua uscita nel 2005 e che perdurano ancora oggi che il film continua a circolare nella distribuzione delle sale con programmazioni di spessore.
Una nota di merito va dedicata anche ai due protagonisti, Nick, fotografo di un grande quotidiano e Maryl, pittrice e disegnatrice professionista (rispettivamente William McInnes e Justine Clarke) che non possiedono i tratti patinati del cinema di successo e ben rappresentano quella normalità umana che raccontano con naturalezza e credibilità. Sulla loro storia si intersecano le altre in una specie di lunga agonia che alla fine trova una rigenerazione simboleggiata da una roboante pioggia che scarica l’acqua come principio di vita e speranza di rinascita. Una nota di demerito andrebbe invece rivolta al traduttore del titolo che in italiano perde completamente il senso della complementarità di vita e morte in riferimento a quella doppia via che per antonomasia è simboleggiata dai binari del treno…
di Giampiero Finocchiaro
Era già bello il libro Uomini che odiano le donne di Stieg Larsson e ora lo è anche la versione cinematografica che ne ha tratto Niels Arden Oplev. Probabilmente, come già per la trilogia di romanzi del bravo giallista svedese, anche il grande schermo proporrà in futuro i successivi due atti che comprendono ancora La ragazza che giocava con il fuoco e La regina dei castelli di carta.
È intanto ben riuscita l’invenzione del protagonista, Mikael Blomkvist, un giornalista d’inchiesta che non ha remore a cercare le verità scottanti nascoste dai potenti, e della sua co-protagonista, l’inquietante e giovane hacker Lisbeth Salander.
La storia che si narra non è nuova se si considera il persistere del male fine a se stesso che colpisce gente normale e menti malate. Ma il racconto è organizzato in modo da svelare piano piano il reale retroscena da cui infine verranno fuori i colpevoli ed emergeranno tutte le vittime.
Una ricca famiglia tiene assieme tante diverse individualità grazie agli interessi economici, eppure sarà ancora una volta quella cornice di demenza storica che fu il nazismo a tessere trame sotterranee che Mikael dipanerà cercando di restituire interezza ad un affetto mai sopito. E nel frattempo sempre il sentimento inizierà a disgelare gli anfratti tenebrosi che il passato di Lisbeth nasconde negandole anche il più semplice sorriso.
C’è in questa vicenda dai toni forti, un senso di giustizia non compromesso dalle apparenze sociali. Si può anzi apprezzare della narrazione proprio il suo svolgersi attraverso la violazione e l’azzeramento di differenti ipocrisie. Cadute queste, una dopo l’altra, è la verità a venire a galla e si ha la piacevole sensazione non di un mistero risolto quanto piuttosto di una giustizia che finalmente trova pace. Già questo dovrebbe spingere a considerare Larsson qualcosa più di un giallista.
Rubrica: Lo abbiamo visto per voi
di Giampiero Finocchiaro
A chi, come noi, è abituato a luoghi come le città di un meridione sempre alla deriva e ormai destinato forse a non rialzarsi mai più dall’incuria, il degrado e l’abbandono, non faranno alcuno stupore le scene di questo film ambientato nello squallore periferico di una Belgrado post guerra civile. L’atmosfera non è certo quella della gioia di ricominciare che segnò l’Europa (e quella volta Italia compresa) nell’immediato dopo guerra una volta disfatta l’idiozia nazi-fascista.
Questo drammatico lungometraggio, è opera di un regista trentaduenne, etnicamente compromesso con una Serbia che tanto da vicino, nell’ebete e feroce fervore di Milosevic, ha rinnovato il ricordo di quell’imbecille imperialismo basato su balorde presunzioni di superiorità. Ma Stefan Arsenijevic, questo il nome del regista, è serbo per nascita e lucidamente mette a nudo proprio il vuoto lasciato e generato da quell’accozzaglia di violenti cretini che di tanto in tanto, da qualche parte nel mondo, prende il sopravvento sulle genti afflitte da indolenza, vigliaccheria, stanchezza, distrazione ed altre pericolose fragilità che però offrono spazio alla feccia del genere umano.
La protagonista, Anica, a Belgrado conduce una storia insensata con un malandrino di serie C, diremmo noi abituati ad averci in casa quelli di serie A. Milutin, infatti, è un boss al quale pagano il pizzo i miserabili commercianti titolari di microscopici chioschetti, ricolmi di grigia tristezza più che di mercanzia. La storia avviene tutta in un giorno, quello scelto da Anica per svaligiare la cassaforte di Milutin per ricominciare una nuova vita altrove. A complicare le cose si intromette Stanislav, un picciotto di Milutin che tardivamente dichiara ad Anica il suo amore con conseguenze che non vi dirò. L’amore così si circonda di crimini il cui filo conduttore è proprio la banalità di un esistere senza riferimenti, nell’epoca contemporanea priva da una parte del sudicio sogno della grande Serbia e dall’altra del superficiale clamore del neo capitalismo. Il degrado urbano è perciò metafora dell’immiserimento umano in una storia che viene raccontata tra sospensioni e silenzi, staticamente, quasi a simboleggiare la difficoltà di innescare quella fuga che Anica anela. E non solo…
1953, Palermo Londra su una sardara. Fotocronaca di un evento
di Giampiero Finocchiaro
Sole di Sicilia è il nome di un’imbarcazione, per la precisione una vecchia sardara tipica da pescatori. Nel 1953 Quintino Di Napoli e George Arthur Oliver ci salirono sopra per risalire da Mondello la costa tirrenica e via via, infrattandosi tra le interne acque dei canali di Francia, sbucare sul canale della Manica per approdare infine in Inghilterra e giungere, via Tamigi, a Londra. Riscoperto il diario di bordo di quell’avventura oggi Sole di Sicilia è il nome di un raid marino che vede due gommoni rifare lo stesso percorso per ricongiungere la nostra isola e quella inglese. Lì, a suggellare l’ideale abbraccio, ci saranno i rappresentanti delle associazioni di emigrati siciliani in Europa ad attendere gli equipaggi.
Non ne avremmo parlato, però, di questa iniziativa se a corredo non fosse stata allestita nella piazza di Mondello paese una mostra fotografica che ripropone gli scatti che i pionieri di questa insolita traversata fecero nel 1953 durante il tragitto. Nelle foto in bianco e nero si percepisce tutto il clima dell’epoca così fiero di essere uscito dal conflitto mondiale e così fiducioso, nel recuperato senso della vita umana, sulle prospettive del futuro. Vi è nello sguardo dei protagonisti, come negli sfondi degli approdi, una desiderabile quiete che oltre alla distanza dalla tragedia della più grande carneficina del secolo mostra l’assenza di quell’inquietudine che galleggia nei volti della gente di oggi, tanto presa dalle ansie del successo effimero e di facciata. La mostra, intitolata 1953, Palermo Londra su una sardara. Fotocronaca di un evento, restituisce un’eco di quell’epica solida e vera che proprio negli anni Cinquanta rimise in movimento il nostro distrutto Paese.
abbiamo visto per voi
Lo spirito del tempodi Giampiero Finocchiaro
Dal 21 febbraio fino alla fine di maggio presso il nuovo museo di arte moderna allestito a Palazzo Riso a Palermo, si è tenuta una mostra il cui titolo è già di per sé una riflessione: Lo spirito del tempo. Andrebbe ricordato che l’espressione trova una più efficace formulazione nella lingua tedesca che, com’è noto, ha offerto più spesso strumenti e terreno di confronto ai filosofi del Novecento: dando quell’idioma un sintetico Zeitgeist. Dove – per chi non avesse confidenza – zeit indica il tempo e geist lo spirito, appunto. E senza volerci inoltrare per “sentieri interrotti” (Holzwege…) qui basti sottolineare che con zeitgeist si intende il clima intellettuale, morale e culturale che caratterizza un determinato periodo storico.
L’arco temporale entro cui si scandaglia lo “spirito” è quello dell’ultimo quarantennio, dal 1968 al 2008 per la precisione. E qui deve infine dichiararsi il filo conduttore della mostra che offre all’esaltazione individuale come alla meditazione interiore dati provenienti dall’evidenza storica ed altri lasciati emergere dalla tensione artistica. In questo modo il percorso che si snoda per i due suggestivi piani di Palazzo Riso, non è che una punteggiata sequenza di opere d’arte acquisite al patrimonio del museo nel quarantennio considerato e recanti una data di produzione in didascalia ed una serie di fatti storici affiancati in bella mostra su un pannello espositivo.
In questo modo trovarsi di fronte al noto Patrizia detta Italia (una bella donna adagiata sensualmente e sulla cui intimità avanza un’inquietante canna di fucile…) di Paolo Baratella (1973) non è solo un godimento estetico ma un invito a tuffarsi entro il clima socio-culturale dell’epoca di cui vengono ricordati alcuni fatti salienti. Non vi dirò quali perché alle mostre bisogna andarci, portare i propri occhi e meditare sul posto, lasciando che l’opera d’arte faccia il suo lavoro che è quello di innescare pensieri, rimandi, suggestioni. E mai come in questo caso ciascuno è legittimato a dire la sua. A titolo d’esempio basterà ricordare che una scatola parlante, anzi, ridente si accompagna per la data di produzione alla prima gara d’appalto per il ponte sullo Stretto di Messina…
Se avessi fatto in tempo a dare un suggerimento, avrei consigliato di girare con lentezza (come è capitato a me) e salire senza fretta al secondo piano. Qui, il più grande degli ambienti vi avrebbe accolti in una dimensione altra, un luogo in cui il soffitto era popolato di mobili e armadi e specchi posizionati come in una fatale entropia geometrica. Si tratta di un’istallazione senza titolo (che bisogno c’era?) di Jannis Kounellis (sì, proprio lo stesso che per il 383° festino di Santa Rosalia a Palermo, nel 2007, ha disegnato il carro trionfale della Santa), esponente di un’arte capace di creare uno spazio espositivo che renda protagonista il visitatore, la cui data originaria e dunque anche l’anno di riferimento per lo spirito del tempo, è il 1993. Mi sono chiesto cosa avesse potuto ispirare quella visione. E voi? Beh, anche voi potete farlo perché appartiene al patrimonio stabile di Palazzo Riso.
abbiamo visto per voi
di Giampiero Finocchiaro
Deliziosa commedia francese, umoristica come sanno esserlo oltralpe quando per schernire l’ideologia socialista si ricorre al dramma della quotidianità che non ha tempo né pazienza e impone la dura logica della sopravvivenza.
Un’improbabile sarta di un’azienda che scompare improvvisamente, inquilina di un condominio che scompare d’un tratto, si adopera per far scomparire il suo padrone, evanescente e irraggiungibile datore di lavoro che senza preavviso svuota la fabbrica d’ogni suppellettile e armamentario lasciando le sarte a chiedersi come tirare avanti. E mentre i sindacati fanno la voce grossa per strappare una miseria di indennizzo da spacciare come successo magari seppellendo l’inciucio e la colpa, le dipendenti prendono l’iniziativa di restare unite, per far che? Per prendere la decisione di uccidere il padrone. Sedute ad un tavolo da bar, in cerca di un’idea per il futuro, tra la proposta di aprire una pizzeria e quella del solito calendario con le nudità indecorose ma dignitose, ecco la proposta che spiazza: unire le misere liquidazioni e mettere insieme un bel malloppo per assoldare un sicario. Con disarmante semplicità, la proposta passa all’unanimità. Glissando senza peso o rimorso sulla precedente esigenza di darsi un nuovo futuro lavorativo. Cambiano le priorità e la caccia al vero padrone, nascosto dal gioco delle scatole cinesi e dei paradisi fiscali, si apre con l’incontro, casuale invero, con il sicario.
Protagonisti sono dunque un lui che si scopre essere una lei, ed una lei che invece è un lui costretto, per trovare lavoro, a fingersi una lei. Emblematica vicenda sullo scambio dei ruoli che, però, finiscono sempre per raccontare la stessa storia: che la vita è una meravigliosa avventura in cui non c’è tristezza che non abbia il suo riscatto nella speranza di un futuro sempre pronto a risorgere.
di Giampiero Finocchiaro
Giulia non esce la sera è uno di quei titoli che per prima cosa ti spingono a chiedere: Perché? Rivolgendoti al film come si trattasse di qualcuno che può risponderti. E poi vai a vederlo cercando questa risposta. Mi pare tipico del bravo regista, Giuseppe Piccioni, autore sensibile e critico, spingere i suoi spettatori a fare anticipatamente ciò che faranno i protagonisti del film: cercare risposte. Valerio Mastandrea impersona Guido, uno scrittore ancora non del tutto convinto di questa sua realtà chissà come piovutagli addosso a far data da un diario tenuto per confessare ad una ragazza le cose che non aveva il coraggio di dirle apertamente. Valeria Golino è Giulia, ovvero un colpo di tempesta che agita l’alcova in cui lo scrittore è nato e cresciuto e su cui appunto fatica a emergere una vena creativa che sembra non sostenerlo adeguatamente in questa incompresa avventura di scrittore.
Un trasloco da una bella casa ad una altrettanto bella, in compagnia di una bella moglie e di una figlia adolescente, è l’occasione per Guido di godere di una finestra temporale che sospende la sua condizione quadrata e tutelata. E qui accade che il caso lo metta in contatto con una realtà distante, quella di Giulia, istruttrice di nuoto grazie ad un programma di recupero che le permette di uscire ogni giorno dalla galera per lavorare in esterno, rientrando per la notte nella cella dove sconta l’omicidio passionale che le ha cambiato la vita.
Vite diverse quelle di Guido e Giulia, che si trovano adiacenti per la complicità estemporanea di un disagio dell’esistere che tuttavia lascia un dolore più ampio, quale quello che resta dopo lo svanire di un’illusione. Naturalmente d’amore. Il fatto è che hanno storie diverse, provenienze che raccontano di vite distanti che non possono trovare incontro. E infatti la tempesta Giulia è per Guido come uno spettacolo suggestivo, lui la segue così come fanno i personaggi dei suoi racconti che lo accompagnano un po’ dappertutto, apparendo come fantasmi nei luoghi e nei tempi più diversi. Le vite dei protagonisti, in sostanza, oscillano di continuo tra la tensione onirica e la quiete quotidiana, in un gioco di rimandi che alla fine scardina il breve sogno in cui entrambi si erano rifugiati. Nessuno dei due può sfuggire all’effetto boomerang che – la fine come il principio – colpisce anche lo spettatore, preso a cercare dentro se stesso l’eco che il film gli ha lasciato addosso. Ciascuno secondo la propria storia.
Lo abbiamo visto per voi
Il curioso caso di Benjamin Button
di Giampiero Finocchiaro
Si sa che gli italiani non hanno grande confidenza con l’inglese, così se si chiedesse a bruciapelo di interpretare il titolo di questo bel film diretto da David Fincher, ci si dovrebbe aspettare una risposta che nel ribadire che si tratta di un “caso curioso” tradurrebbe nome e cognome con Beniamino e Bottone, non fosse altro che per quella inveterata nostra e divertente abitudine di scimmiottare l’inglese semplicemente tranciando la vocale finale delle parole italiane. E tuttavia, scherzo del Destino che probabilmente ha radici italiche, forse meridionali, ci si azzeccherebbe. Perché in effetti la curiosa avventura biografica di Benjamin ha un’ipoteca di inizio e di fine che viene appunto dai bottoni, o meglio, da una fabbrica di bottoni che appartiene al padre biologico, conosciuto soltanto sul finire.
Il film si basa su una storia fantastica uscita dalla penna di Francis Scott Fitzgerald nel 1922 entro una fortunatissima raccolta di racconti “Tales of the jazz age”. L’autore del più noto “Il grande Gatsby” aveva immaginato la storia di un uomo la cui vita inizia con una insolita vecchiezza abbinata allo stadio neonatale ed una percorso biografico inverso che, col passare degli anni, gli fa riconquistare nel corpo la giovinezza e il vigore che per le persone normali si associano ai primi anni di vita. La morte, dunque, lo coglierà in fasce, sulle braccia della donna amata e invecchiata secondo l’orologio biologico che tutti noi conosciamo.
L’idea è talmente sovversiva del naturale svolgersi delle cose, della vita insomma, che per approdare al film ci sono voluti parecchi anni dopo un preliminare acquisto dei diritti del manoscritto a metà degli anni Novanta. Progetti, registi, attori, sceneggiatori e case cinematografiche diverse si sono avvicendati in un percorso di avvicinamento che per concretizzarsi ha richiesto quindici anni. L’idea finale è quella proposta da Fincher con l’interpretazione di Brad Pitt e Cate Blanchette.“
I was born under unusual circumstances”. Questo l’incipit del film – mi sia concessa la breve digressione in lingua originale – about a man who is born in his eighties and ages backwards. A man, like any of us, unable to stop time. We follow his story set in New Orleans from the end of World War I in 1918, into the 21st century, following his journey that is as unusual as any man’s life can be”.
Nascere già vecchi ma con la curiosa eccitazione di un bimbo e poi e via via ringiovanire con il maturare dell’esperienza che muta l’asprezza in sapienza è in fondo un modo di variare l’ordine degli addendi senza che nulla cambi della somma. Quanti di noi, soprattutto in quest’era vaga di pensieri e fragile di idee, soffrono l’avanzare degli anni per la perdita di quel corpo alla cui caduca difesa si dedicano scienziati, estetisti e millantatori? Fosse in nostro potere cambiare le cose, fosse possibile come spesso si lamenta, godere con la mente adulta del vigore della giovinezza relegando lo smarrimento della vecchiaia agli anni neonatali in cui comunque qualcuno si prende cura di noi senza avvertire peso ma nutrendo un amore infinito, cosa cambierebbe nella nostra equazione di vita? Saremmo forse meno soli? Saremmo forse più in pace col mondo e con gli altri? Saremmo forse meno aggressivi, più tolleranti, amorevoli, comprensivi? Avremmo minore ambizione, cattiveria, disprezzo, indifferenza? Naturalmente no. Ciò che questo bel film ci ricorda, con la metafora del grande orologio che corre all’indietro, è che il tempo perduto non si recupera perché le nostre scelte determinano cure ed abbandoni, qualunque sia il verso che il tempo, dimensione relativa dell’uomo entro l’universo, tiene. La vita è un fluire che non torna, starci dentro è accettare il fluire prima di ogni altra cosa e disporsi ad accogliere ciò che vi cade dentro, comprendendo che il solo timone che aiuta in questa meravigliosa navigazione è solo e soltanto l’amore per gli altri e, dunque, per la vita stessa.
Lo abbiamo visto per voi
di Giampiero Finocchiaro
Nell’ambito di un convegno dedicato al mondo della migrazione siciliana in America, è stata allestita una mostra che in circa 100 pannelli offre una panoramica a tutto tondo dei molteplici aspetti legati alla “spartenza”, quell’abbandonare la propria terra che sostiene la speranza di un futuro migliore oltre Oceano.
La mostra racconta la storia della migrazione siciliana spiegando tutti gli elementi di crisi economica e sociale che tra ’800 e’900 costrinsero enormi masse di siciliani a cercare fortuna in America. Si apprende così del concorso fatale di un’epidemia di fillossera che mise in ginocchio la viticoltura; si apprende di un calo del 40% del pescato nella tradizionale e diffusa attività delle tonnare che allora ancora circondavano l’intero perimetro dell’Isola; si apprende del sorgere di una concorrenza americana che espulse dal mercato internazionale lo zolfo ed il sale di una Sicilia sempre in ritardo tecnologico per le tecniche estrattive come per le relative infrastrutture di trasporto.
La mostra evoca pure gli aspetti più umani e culturali legati al dolore dell’emigrazione: la rete dei venditori locali dei biglietti delle navi transoceaniche col compito di “convincere” i compaesani a partire ma lucrando sulle loro spese di viaggio; l’uso di portare con sé valigie contenenti sapori e odori di Sicilia; etc. Vi è infine una ampia presenza delle società di mutuo soccorso sempre intitolate alla memoria delle radici e vocate alla solidarietà del futuro.
Accade, muovendosi tra le tante immagini proposte presso la ex chiesa di San Mattia ai Crociferi in via Torremuzza a Palermo, di avvertire l’eco di qualcosa che seppure lontana nel tempo appartiene alla nostra intima storia personale come a quella dell’identità culturale della nostra gente. Visitarla aiuterebbe a ricordarci da dove veniamo anche quando incrociamo ai semafori smagriti e incattiviti esseri umani che si arrabattono per tirare a campare.
Rubrica di cinema e mostre: Lo abbiamo visto per voi
di Giampiero Finocchiaro
“Come Dio comanda” è il titolo di una storia forte scritta da Niccolò Ammanniti e ora trasposta in film da Gabriele Salvatores. Il racconto è centrato sulla relazione padre figlio, i bravi Filippo Timi e Alvaro Caleca. Il contorno è una qualunque cornice di degrado umano, sociale, morale. E questo ce la rende vicina, vicinissima anzi che di queste tragedie la nostra contemporaneità è talmente fitta da averci abituato ad esse come si trattasse di necessità, di forme irrinunciabili e inevitabili del nostro vivere attuale. Invece mai arrendersi a questa tristissima visione che uccide ogni speranza.
Rino (Filippo Timi) è un esempio di disimpegno e sfortuna che si chiudono in una crosta di stupidità e brutalità; Cristiano (Alvaro Caleca) è invece il prototipo di tutti quei ragazzi che a scuola vediamo giornalmente arrancare con difficoltà e diffidenza spesso opponendo loro fastidio ipocrita o buonismo deviante. Entrambi attraversano le loro vite con istintiva casualità, lasciando che le cose prendano il sopravvento sui loro pensieri che o sono scomparsi o vanno via via assottigliandosi. E l’educazione che il padre impartisce al figlio va giusto in questa direzione di spegnimento di ogni barlume di anima.
La vita, però, è piena di sorprese. Sul loro cammino intesse una trama di scambi e smarrimenti dai quali, paradossalmente ma realisticamente anche, viene fuori una redenzione che solo un’esperienza di dolore rende possibile entro un abisso di degrado e perdizione. Le lacrime di Rino saranno il segno che dopo una costante propagazione del Male, sarà invece il Bene a trovare la chiave di un cambiamento, primo passo di un futuro migliore che il finale del film non rivela ma lascia presagire.
L’atmosfera del film è dura, il racconto si distende con forte tensione emotiva lasciando allo spettatore il tempo di “vivere” ciò che gli viene proposto. E la catarsi che vi si conduce non è delirante come nella fortunata banalizzazione di un comico da tivù ma è sincera e muove un’agitazione che si risolve però in commozione ed in un gradito senso di pace.
Rubrica di cinema e mostre: Lo abbiamo visto per voi
“L’anno che i miei genitori andarono in vacanza”
di Giampiero Finocchiaro
O Ano em Que Meus Pais Saíram de Férias, questo il titolo originale, non è un film di genere estivo. La “vacanza” risulta un’ironia tagliente. Cao Hamburger, autore e regista, racconta di un bambino di dodici anni lasciato in tutta fretta dai genitori che per motivi politici abbandonano il Brasile del 1970. Mauro, si ritrova in mezzo a una comunità ebrea di San Paolo che è città in cui convivono etnie e minoranze religiose di ogni parte del mondo, italiani compresi naturalmente. Sullo sfondo l’amore per il calcio che unisce tutti, dal piccolo Mauro al rabbino capo e ai militanti socialisti che si nascondono da un regime subdolo. Il racconto, dunque, corre tra la strisciante intolleranza del potere politico-militare e la tolleranza di piccole comunità e singole persone che pur negli inevitabili attriti della quotidianità lasciano spazio alla comprensione dell’altro e allo spirito di comunità.
Ma il film è, a mio parere, ben altro. L’attesa dei mondiali di calcio e il calendario che scandisce il procedere del Brasile verso la storica finale che lo vide conquistare definitivamente la coppa Rimet nell’indimenticabile duello con l’Italia di Mazzola e Rivera, offre uno sfondo di opaca sventura a quelle masse che proprio negli anni Settanta in più parti del mondo spendevano le ultime risorse di uno spirito critico destinato a morire, forse per sempre. Così come lo aveva preconizzato Theodor Adorno in un saggio di qualche anno prima dedicato alle forme di irrazionalità che caratterizzano il mondo contemporaneo. La sotterranea trama militare, i sotterfugi politici, le cautele degli oppositori, si mostrano non più dentro un quadro storico e all’interno di un valore ideologico ma semplicemente incorniciate da un affresco sociologico ed in una dimensione acritica. Quelli che vediamo riunirsi al bar per assistere alla partita di pallone, nonostante la gravità della situazione politica in cui vivono, non sono eroi né personaggi, ma semplicemente i progenitori degli inebetiti, le masse della contemporaneità, coloro che hanno assunto questa forma minore di libertà, regolata dalla televisione, dalla finzione istituzionale, dall’apparente assenza di controlli che permette di sporcare e urlare ma non di pensare, come l’unica possibile e giusta. Che così non è, è cosa che appare agli occhi di chi per ventura o lampo riesce a staccarsi da Matrix, recuperando la percezione consapevole, lo spirito critico, il senso del dovere, l’etica dell’esempio personale e la gioia del vivere con semplicità, in autentico spirito di comunità, distante dall’individualismo che giustifica tutto e il contrario di tutto.
Il film termina con una riflessione di Mauro che a modo suo spiega il mancato ritorno del padre, inghiottito dalla ferocia di un ennesimo regime: l’esilio è quando hai un padre così in ritardo che forse non tornerà mai più. Parafrasando: l’esilio della ragione è quando c’è una società che ne ha dimenticato l’uso da così tanto che forse non tornerà mai più.
Rubrica di cinema e mostre: Lo abbiamo visto per voi
di Giampiero Finocchiaro
Chissà quante volte qualcuno si è posto il problema di come parlare di integrazione. Mi pare che, senza volerlo, ci sia riuscito meravigliosamente Dany Boon che è regista e primo interprete di questa esilarante commedia francese dal titolo disorientante “Giù al nord”. E già perché pur essendo tondo, questo nostro mondo un capo ce l’ha, un punto di comando che è appunto il nord magnetico, principio ordinatore di meridiani e paralleli, discrimen tra un alto e un basso culturali e sociali che distinguono tra climi differenti, di luoghi come di anime delle genti di vario colore di pelle e mutabile orientamento religioso. Al punto che pensare al nord è sempre come un’idea di salire o di salvifica ascensione, mentre volgersi con la mente al sud ne ha del discendere che tanto si apparenta con gli inferi, croce e delizia degli umani peccati come delle irresistibili tentazioni.
A raccontare di un nord rovesciato, questo film dai toni garbati e divertenti, felice di un’invenzione narrativa semplice ed efficace, ci riesce senza mai pagare pegno. Complice una delle tante false vetrine del nostro finto mondo di carriere, soldi, sgomitare socialmente (s)corretto, furbizia ed altre prerogative della contemporaneità metropolitana d’Occidente. Un impiegato delle Poste fa domanda di trasferimento presso la sede che l’ente di appartenenza possiede in un’amena località del sud dorato della Francia. Lo spinge un desiderio esplicito della moglie, sua pungolatrice. Lo guida un miraggio di progresso sociale che condurrebbe il protagonista e la sua famiglia da una regione benestante ad un’altra che al benessere economico aggiungerebbe alle loro esistenze anche quella qualità della vita che si può intuire coerente coi suoi presupposti. Prevedibile ma non per questo atteso, a frenare tale legittima ambizione giunge un collega, concorrente “agevolato” dall’handicap che gli riconosce priorità assoluta, com’è giusto che sia, ma senza porsi neanche il problema di una relazione di causa ed effetto tra la condizione di partenza e la situazione di arrivo che darebbe un senso alla priorità, come sarebbe giusto che fosse ma non è.
Stando così le cose, il nostro allora ci riprova, inventandosi una versione delle “pari opportunità” ormai comprensibile seppure illegittima, ottenuta con l’imbroglio di un handicap autodichiarato con la quasi certezza dell’assenza di controlli. Francia e Italia gemelle, verrebbe da dire se non fossi certo di star parlando, percentualmente, di quasi-realtà nel nostro caso e di quasi-finzione in quello d’oltr’Alpe. Dell’esito che ha la commedia si intuisce dall’obbligo intimato al protagonista di trasferirsi immediatamente a Pas-de-Calais, nordica sponda di una Francia che svela gruppi etnici e dialettali inattesi.
In questo luogo di purgatorio si assiste però ad una rinascita dell’uomo a metà tra il nostrano Fantozzi e l’eterna macchietta dell’impiegato medio d’ogni dove. A consentire una lettura di integrazione è il contrasto tra il persistere dei luoghi comuni e il disvelarsi della diversa realtà. Il clima, la gente, il cibo, tutto è visto con la doppia lente del vero e del si-dice. Gli “altri” piano piano si avvicineranno facendo breccia nella crosta dell’io per aprire uno spazio del “noi”, un passo per volta e un passo per ciascuno. Pas-de-Calais riserva sorprese ormai desuete che parlano di solidarietà, amicizia, semplicità e che lasceranno al nuovo ospite-coatto un senso di libertà mai conosciuto prima lasciandoci la certezza che seppure, appunto, desuete non sono tuttavia mai del tutto disperse, sempre ancora recuperabili. Così quando finalmente arriverà l’agognata fine della punizione, il protagonista dovrà ammettere che il proverbio sentito al suo arrivo conteneva una verità: Chi arriva a Pas-de-Calais piange due volte, la prima quando arriva, la seconda quando riparte.
(da "Il Vespro" dicembre 2008)
Abbiamo visto per voi
di Giampiero Finocchiaro
Sono andato con qualche cautela a vedere l’ultimo film di Wim Wenders. E sì perché affrontare un’opera realizzata – come abitudine per Wenders – senza una vera sceneggiatura o al più con un canovaccio, presenta rischi. Il rischio è che l’autore si compiaccia di riflessioni personali difficili da condividere col pubblico, col grande pubblico perché dei tantissimi intellettuali auto referenziati è talmente scontata la sudditanza psicologica che come un gregge, si sa, plaudono qualunque cosa gli venga proposto da chi ha ormai un alone di maestro.
Eppure non è sempre limpido il pensiero di un autore, non sempre è pronto fino in fondo specie se, come talvolta accade, urgono esigenze di commercializzazione o di spesa di fondi che, se lasciati aspettare, si perderebbero. Mi pare che i finanziamenti PON della Sicilia abbiano, in questo senso, fatto qui un torto al regista tedesco più che aiutarlo a esprimersi con la libertà che rivendica da sempre e che per la verità non gli è mancata mai. Palermo shooting, infatti, è una meditazione priva di ottimismo sulla morte e sul senso della vita che non offre alcuna idea originale, nessuna prospettiva meditata a sufficienza. Realizzato in un tandem di location tra una linda e modernissima Dusseldorf ed una lercia e decomposta Palermo, intessuto di visioni del tempo sospese a mezzo tra citazioni bergmaniane e incompiute visioni personali, questo film che senza dinamiche drammatiche gira intorno al dramma della vita resta compresso e senza fuoco.
Nonostante sia sorretto da un’ottima antologia musicale arricchita di illustri presenze (Lou Reed, Patti Smith, Giovanni Sollima), e coadiuvato da una eccellente fotografia (si segnala il cammeo inconcludente con Letizia Battaglia) che tuttavia mi pare debitrice dell’ispirazione sempre fresca di Magritte, Palermo shooting lascia la sensazione di un approccio fragile al tema della vita il cui senso, si sostiene, è nella capacità di affidarsi alla morte come ad un tenero e gentile abbraccio che dischiude le porte della verità. Cito quasi testualmente: “La morte è una freccia che dal futuro ti corre incontro”, prospettiva che porta ad esaltare il presente nel quale solitamente si pagano i sensi di colpa covati nel passato. Una bella pennellata la dà inizialmente l’incontro con un singolare pastore in papillon, simbolicamente appresso a un gregge ma sostanzialmente alla ricerca di un tempo discontinuo, da vivere di volta in volta come l’ultima volta. Mi pare perciò una ripetizione ansiogena e senza la freschezza del più noto “attimo fuggente”, ennesimo tentativo di trovare nell’hic et nunc non uno stordimento esorcistico ma un inveramento mistico.
Il fatto è che questo tipo di meditazione è in ritardo nel nostro panorama critico, appare piuttosto come un pentimento lussuoso ed inutile che può provenire da chi trascorre la vita senza un vero contatto con la realtà cruda di cui è immagine Palermo brulicante e corrotta, labirintica e informe seppure “viva” ma di una vita che l’Autore coglie nel suo strutturale caos primordiale. Ne è simbolo quel Trionfo della morte che da secoli agita storici e critici con scarsi risultati sempre improntati a invenzioni consolatorie e che, per dirla tutta, se resiste è solo perché un affresco murario è difficile da rubare altrimenti avrebbe preso già la strada della Natività del Caravaggio “perduta” con buona pace di tutti i ben pensanti che schiacciano periodicamente questa città, nata forse col nome di fiore, sull’idea della morte, per mafia o per consunzione come in questo caso. In tal senso il viaggio che conduce il protagonista da Dusseldorf a Palermo ha valore simbolico: la prima è vista attraverso i giovani, la musica, la creatività, la movida ma il senso è che sia vacuità; la seconda mostra anfratti e sporcizia, commistione di uomini e animali e il senso vorrebbe essere di vita. Il viaggio diviene perfino mitico, nel senso che dal cosmos ordinato riconduce al caos originario per ritrovare la vera vita. Operazione ben condotta, in ultima analisi, ma non riuscita. Traendo le dovute conseguenze: Dusseldorf o cosmos o la vita moderna sarebbe la morte in vita mentre Palermo o caos sarebbe la vita ma una vita in morte. Quale futuro può più restare?
(da "Il Vespro" dicembre 2008)
Abbiamo visto per voi
di Giampiero Finocchiaro
Non si creda che l’opera lirica sia spettacolo d’élite o di difficile accesso. Provare per credere. L’Aida di Giuseppe Verdi che attualmente propone il Teatro Massimo di Palermo è in questo senso un ottimo esperimento nonostante sia noto che è tra le più lunghe (4 atti) del panorama operistico.
La storia, su libretto di Antonio Ghislanzoni e basata su un soggetto originale di Auguste Mariette, racconta di una principessa etiope catturata e condotta in schiavitù in Egitto. Si innamora dell’eroe Radames che a sua volta è combattuto tra il desiderio di Aida e la fedeltà al Faraone. Naturalmente ci si mette di mezzo la figlia del monarca che non solo ama pure lei Radames ma vuole imporsi sulla rivale con l’inganno e la prepotenza. Ovviamente finisce male perché la figlia del faraone non otterrà nient’altro che spingere Radames tra le braccia dell’altra ma rovinandosi fama e carriera. Un tribunale di saggi, dopo avere salutato in Radames il salvatore della Patria, lo condanna per alto tradimento a morire sepolto vivo in una cripta. Aida non resisterà e…
Meglio non dirvi come finisce, andatela a sentire. Sì perché in effetti questo allestimento per la regia di Franco Zeffirelli e la direzione d’orchestra di Maurizio Benini, offre un vero e proprio incanto alla vista e all’udito. È facile intuire che ci troviamo davanti a una narrazione che ha le caratteristiche per affascinare e coinvolgere gli spettatori. Non è un caso che tanti fortunati serial tivù ricalchino fedelmente i moduli narrativi che tra ’800 e ’900 fecero la fortuna del romanzo d’amore. La musica, poi, aggiunge una sollecitazione emotiva che commuove e lascia una sensazione di piena soddisfazione che ripaga ampiamente dello stare seduti per quattro ore. Spaventasse il costo dei biglietti, segnalo la possibilità di seguire le prove generali che precedono la “prima” e che sono accessibili con un costo di pochi euro. Un motivo in più per comprendere anche il teatro lirico tra i propri consumi culturali.
(da "Il Vespro" dicembre 2008)
Rubrica di cinema: Lo abbiamo visto per voi
di Giampiero Finocchiaro
Non stupirà che un film intitolato “Il papà di Giovanna” racconti di un sentimento che lega un padre e una figlia. Ciò che stupirà, vedendo questo bel lungometraggio di Pupi Avati, è scoprire, apprendere, constatare, di cosa sia capace l’amore quando è assoluto, quando soltanto offre senza chiedere nulla in cambio. Così avviene nella vicenda familiare di Michele Casali (Silvio Orlando), insegnante di educazione artistica in una scuola di altri tempi, quella dell’Italia che nel ventennio fascista volle sentirsi “implacabile” come in remote glorie mai più ripetute. Per fortuna, aggiungeremmo se non si dovesse contemporaneamente prendere atto di una resa così profonda da risultare molto più sofferta di una sconfitta.
Il racconto: la moglie di Michele, insoddisfatta e devota, è un ordigno pronto ad esplodere, simbolo di una ambizione tutta esteriore – come fu l’iperbole fascista - destinata a crollare al primo sussulto; la figlia, introversa ed onirica, predisposta ad affondare nella tragedia, a sua volta simbolo di una sottomissione interiore che riconduce a colpa il laissez faire che diede spazio al delirio mussoliniano. Tra loro il marito-papà Michele, un cuore denso nutrito da una mente aperta al dialogo e all’ottimismo, singolare dimensione nel quadro storico che fa da cornice alla vicenda. E uomo d’altri tempi, deve aggiungersi per togliere subito di mezzo il vanitoso equivoco che un tale esempio oggi ancora potrebbe qualcuno tenere. Intorno a loro v’è uno sfondo sociale che copre gli anni tra il 1938 e il 1945 che mostra i pezzi e i frantumi in cui ciclicamente la nostra umana razza annunzia le proprie temporanee ambizioni di civiltà e progresso nel farneticamento guerriero di nani e potenti. Così la storia del “papà di Giovanna” diventa racconto o, meglio, duello tra il tendere dell’uomo al realismo esteriore della storia e il tendere alla verità interiore del sentimento. Propende per il primo la mamma di Giovanna che in esso vede la sola realtà e abbandonandosi ad essa ne viene annientata. È certo del secondo il papà di Giovanna che per sostenere la figlia, precipitata da un gesto criminale in un tunnel di dolore ed ignominia, si accascia in una esistenza sempre più perduta fuori ma forse ricca dentro. Sarà lui a tessere il filo che recupererà dai reciproci abissi tanto la figlia quanto la moglie. E lo farà con la forza semplice dell’amore, lo stesso che lo porterà a capire quando essere presente e quando assente, a distinguere i bisogni delle persone che ama e che talvolta gli chiedono costanza e prossimità e talaltra affettuosa distanza e complicità. Un amore alimentato dalla pazienza, dalla consapevolezza che gli umani destini sono piccole meteore di solitudine e dolore se vissute slegate dalla certezza di un amore più grande che tutto unisce e tutto spiega. L’amore di un papà, l’amore che un Maestro ci affidò come amore del prossimo.
(da "Il Vespro" novembre 2008)
Abbiamo visto per voi
Il mondo fantastico di Picasso
di Giampiero Finocchiaro
Picasso a Palermo. Dovrebbe fare notizia e invece se vi recate al Palazzo Reale che ospita questa mostra di indiscutibile valore, troverete in fila più stranieri che palermitani e viciniori. Eppure ci si prova a creare eventi di richiamo culturale. Il fatto è che, forse, la “cultura” che attira è quella che dà titolo ad una ridicola trasmissione televisiva tenuta da un signormachiè circondato da ragazze ridotte a veline (sic!) che fa sorridere con le stupide battute di anonimi autori senza linguaggio e senza idee.
Nelle sale dette del Duca di Montalto, sono ospitate sessantasei opere del grande Maestro spagnolo (nome completo: Pablo Diego José Francisco de Paula Juan Nepomuceno María de los Remedios Cipriano de la Santisima Trinidàd Martyr Patricio Clito Ruiz y Picasso; n. 1881; m. 1973) che di idee invece traboccava e di linguaggi ne inventava a iosa. Non a caso Pablo Picasso è un esemplare difficilmente imitabile per lo zelo e la vivacità produttiva, per la tempesta creativa di cui era portatore, per la vastità della sua ispirazione artistica e la padronanza delle tecniche espressive. Grazie a dio la mostra – a ingresso gratuito e organizzata dall’ARS e dall’assessorato regionale Beni Culturali – rimarrà aperta fino all’8 marzo 2009 e ci sarà dunque tempo per pentirsi di non avere risposto al richiamo dell’arte del pittore noto per i suoi “periodi”: il blu, il rosa, l’africano, il cubismo, il neoclassicismo.
Non attendetevi i grandi quadri che la scuola diffonde come nozioni universali, non attendetevi dunqueGuernica o Les demoiselles d'Avignon, ma disponetevi alla visione di immagini intime come possono esserlo i ritratti tracciati con penna e matita su fogli di carta di uso comune o con china e gessetti su carta con filigrana. Si tratta di opere giovanili ma anche di età matura, per lo più appartenenti alla prestigiosa collezione Wurth, nelle quali troverete una sensazione di semplicità che vi restituirà con immediatezza l’agilità della mano di Picasso, la sua coincidenza con la rapidità dell’intuizione artistica che lo attraversava, continua e vitale, come il respiro. Dovrete acuire i sensi e l’intelletto perché nel girovagare del segno grafico che talvolta si attorciglia e si contorce avrete modo di distinguere volti e volumi che di primo acchito tenderanno a sfuggire, come diamanti celati nello scuro della roccia. È lo sforzo che l’opera d’arte richiede come segno dell’impegno reciproco, tra colui che guarda e l’oggetto osservato. Non un semplice e anonimo automatismo, ma un lavoro cosciente di ricerca e scoperta.
Una sezione di questa mostra curata da Roland Doschka, è dedicata alle numerose donne di Picasso: La bella Fernanda Jacqueline, Profilo di donna, Donne di Mougins, Ritratto di Francoise Gilot, etc. Presente anche una testimonianza delle famose colombe che realizzava con veloce semplicità: vi sono persino due esemplari in terracotta bianca realizzate a mano dall’artista.
Da segnalare la breve ma intensa galleria di ritratti fotografici che dà una visione concreta dell’artista nella sua fabbrile operosità. E alcuni oli su tela di maggiori dimensioni che restituiscono il Picasso più noto, quello che tirava fuori geometrie insospettabili nei tratti umani dei volti e degli sguardi convinto che occorresse cogliere l’oggetto da ogni punto di vista contemporaneamente anche se questo poteva risultare non immediatamente leggibile.
Si va via con la sensazione di avere aperto un altro punto di osservazione nel proprio strumentario se si tiene al senso critico più che all’apparire fugace.
(da "Il Vespro" novembre 2008)
Rubrica di cinema: Lo abbiamo visto per voi
“Il Divo”
di Giampiero Finocchiaro
Vero è che con molta esitazione potrebbe dirsi che ancora esiste la vergogna, ma per fortuna neanche può negarsi che sia estinta. Almeno così credo io. E poi ce lo ricorda questo singolare lungometraggio di Paolo Sorrentino, Il Divo, che alterna terrificanti moviole di omicidi ed attentati a silenzi ironici e sequenze di cronaca immerse in atmosfere felliniane, per dire della complicità che qui si osserva tra il reale e il surreale, tra la verità e il suo grottesco e sotterraneo racconto che è la politica italiana degli ultimi decenni. La visione del film induce a provare vergogna, ma quale? e verso chi o che cosa? La vergogna è un sentimento che nella sua storia riconduce ad atteggiamenti di riservatezza descritti da espressioni come timidezza e ritegno; o ad altri come il riguardo, la discrezione, la modestia; contiene persino lodevoli comportamenti che si esplicitano nella venerazione, reverenza, rispetto, deferenza, stima; e solo in coda alle evoluzioni dell’originale latino: verecondia si trova quel “sentimento di profondo turbamento e di mortificazione, derivante dalla consapevolezza che un atto, un comportamento, un discorso, ecc., propri o anche altrui, sono riprovevoli, disonorevoli, sconvenienti” (T. De Mauro). La vergogna, appunto. Questa sequenza concettuale è tutta efficacemente rappresentata dal volto ineffabile di Toni Servillo, protagonista capace di rendere la maschera enigmatica del vero Divo: Giulio Andreotti.
La storia italiana recente, tristemente ricca di episodi “riprovevoli, disonorevoli, sconvenienti”, passa tutta attraverso la vita di questo rappresentante di un modo di fare politica che ha lasciato un segno profondo nella cultura del nostro martoriato Paese, una traccia destinata a durare ancora molto a lungo. La feroce indifferenza che il Divo spaccia a se stesso per forza d’animo altro non è che l’arroganza del potere installatosi in roccaforti distanti in modo abissale dalla realtà che tutti noi condividiamo ogni giorno. Rende bene, in tal senso, una sequenza che inquadra il Divo seduto come su un trono, in penombra, che osserva che il Male è necessario proprio per assicurare il Bene: “lo sa Dio e lo so anch’io”. Così tutto si assolve da sé, per l’uomo freddo e composto, dalla battuta tagliente e sempre pronta, che regge le sorti dell’Italia da un tempo infinito come fosse un monarca di altri secoli ed altre latitudini. Gli innumerevoli incarichi ministeriali, i numerosi governi presieduti, le inesauribili cariche di presidente di enti e associazioni di ogni genere e sparsi ovunque per il Paese avido di lui come i servi del beneficio di strisciare ai piedi del sultano per ottenerne molliche e benevolenza, sono soltanto la facciata della forza di comando e asservimento che secondo il film ha caratterizzato un’epoca e uno dei suoi rappresentanti più significativi in particolare.
Allora torniamo a prima: apparente la timidezza e finto il ritegno, assente il riguardo, sconosciuta la discrezione, perduta la modestia, incompresa la reverenza, negato il rispetto, dimenticata la stima. Restano: la venerazione che è il perseverare nei secoli del culto dell’individualismo che si crede erroneamente prodotto del capitalismo, e la deferenza che è forma strisciante vile ed interessata del rispetto che cristianamente inteso non si è mai affermato. Della vergogna, intendo dunque, non possiamo che prendere il senso ultimo di mortificazione, che è il sentirsi morti dentro ma per rinascere. E questo ancora si attende. Vedere il film, aiuta a pensare.
(da "Il Vespro" luglio 2008)
La mostra di De Chirico alla GAM di Palermo
di Giampiero Finocchiaro
È bello sapere che c’è un luogo, a Palermo, dove periodicamente tornare per accogliere tra i sensi e la tensione emotiva le vibrazioni che promanano dalle opere d’arte. Di artisti che meritano, certo. Come lo è De Chirico, ancora presente a Palermo, questa volta presso la Galleria d’Arte Moderna, e di nuovo per iniziativa di Maurizio Calvesi che già nel 2003 aveva curato un’esposizione di una quarantina di capolavori questo eclettico autore nelle sale espositive di Palazzo Ziino. Un vanto, allora, per l’Assessorato alla cultura di Palermo, prima pubblica istituzione a dedicare una mostra ad hoc ad uno dei maestri del Novecento pittorico italiano ed europeo. Un vanto che si è confermato con questo nuovo percorso, La Metafisica continua, che accosta le opere del grande Maestro non cronologicamente ma per tema, cercando al tempo stesso di ricreare l’atmosfera della casa-museo che a Roma ospita i lavori di De Chirico, oggi curati dalla omonima Fondazione.
Accade spesso che a motivare eventi come questo siano ricorrenze tristi, come in questo caso lo è stato il trentennale della scomparsa di De Chirico. Eppure, magicamente, il riunirsi di quadri e sculture che testimoniano della fabbrile operosità del Maestro, le suggestioni che questi oggetti d’arte portano con sé e le sollecitazioni che offrono ai visitatori e a quanti vi poggiano lo sguardo con interesse e curiosità, producono l’infinita rinascita del loro Autore, com’è nel destino dei grandi maestri, dei grandi artisti. Si scorre tra tele e fusioni di bronzo, alcune maestose come i grandi Archeologi che trovano multipla eco nelle riproduzioni omonime di più ridotte dimensioni ed altre quasi nascoste con artificio, come i Coloniali posti a mezzo tra due coppie di piccoli Archeologi.
Colpisce nella prima sala il susseguirsi di “imitazioni”, tele realizzate cercando di com-prendere (secondo l’etimo corretto del termine) le visioni e le tecniche che furono di altri grandi maestri prima del nostro. Una carrellata metodologica che sintetizza la strada che ha condotto De Chirico dalla vocazione alla grandezza.
E appaiono come improvvisa luce le opere più note, quelle a cui l’Autore deve l’etichetta di metafisico, giusta solo in parte per una vena pittorica che mal si racchiude in categorie circoscritte come ha mostrato la sua vicenda biografica.
Impossibile suggerire quali evocazioni sorgano davanti alle tele con “enigma” o di fronte a ritorni nel tempo come Ettore e Andromaca (1917 e 1974), lì dove pienamente si coglie quel senso di estraniamento che il pittore teorizzava come chiave di accesso ad altre dimensioni, quelle nascoste dalla routine del quotidiano, quelle capaci di rivelarsi solo che fosse rivoluzionato l’ordine logico, l’aspettativa della norma. Così i manichini usciti dalla sua invenzione, sul quadro tentano di confondersi sul piano reale di una piazza, quasi possibili condomini di uomini e donne ma poi nella presenza museale rivelano qualcos’altro che li rende eccezionali e ancora irreali. In un gioco di rimandi che conduce il visitatore in un regno di mezzo tra sogno e realtà.
(da "Il Vespro" aprile 2008)
Rubrica di cinema: Lo abbiamo visto per voi
di Giampiero Finocchiaro
Into the wild, l’ultimo film da regista di Sean Penn, viene definito un film d’avventura. Cioè? Cos’è questa “avventura” che tutti noi chiamiamo in causa di quando in quando, magari per tornare a sentirci liberi. Il termine indica le cose che devono ancora venire, sinonimo di sorte, meglio, di futuro. E se il darsi all’avventura racchiude il fascino del non conosciuto e con esso quello della totale libertà, si comprende anche il fascino del futuro, luogo potenziale e ancora inespresso che contiene tutti i nostri sogni, le aspirazioni, un immenso spazio temporale in cui depositare ciò che abbiamo lasciato per strada come non fatto e non detto, ciò che non abbiamo saputo difendere, ciò che non abbiamo saputo seguire, ciò che non abbiamo saputo costruire. Il futuro, insomma, come avventura del mondo possibile, di quel mondo migliore che tutti diciamo a parole di volere e non sappiamo costruire.
Ne parla questo bel film basato su una storia vera, la vicenda di un giovane americano che via via si spoglia della modernità fatta di “cose” e frastuoni. Quasi un novello san Francesco, con la differenza che Chris – nome sia del protagonista reale che del personaggio – pur lasciando in beneficenza i suoi averi, non rivolge ai suoi simili la sua ansia di verità ma al mondo della natura. Terminati gli studi universitari, assolto l’obbligo dell’istruzione che gli permette di affinare la sua speciale sensibilità, Chris si incamminerà verso l’ignoto (Niente telefono, niente piscina, niente sigarette, libertà estrema), sempre più a nord, sempre più verso quei luoghi dove il freddo e il silenzio si sostituiscono al calore umano e all’insulso vociò delle masse che urlano senza sapersi ascoltare (Non capisco perché ogni persona è così cattiva col suo prossimo).
Il suo avvicinamento all’Alaska, dunque, è un viaggio durante il quale conosce e fa amicizia con alcune persone che di lui serberanno un ricordo eterno di affetto sincero, perché autentico e disarmante è il modo con cui Chris si relaziona con loro: il modo della nuda verità. Come dice lui stesso nel diario che scrive e fa da voce narrante nello sviluppo del film, abbiamo solo bisogno di cambiare il modo di guardare le cose, impegno semplice benché non facile, che dipende dalla scelta individuale. Che lui fa. Così, il giovane laureato in legge si arrangia con qualche lavoro manuale fino a quando non è pronto e affronta la sua verità. Non è una sfida a portarlo a sopravvivere tra i ghiacci dell’Alaska dove può urlare al vento e agli elementi della natura la sua condizione solitaria che non è solitudine grazie ai libri che si è portato dietro. È piuttosto il sogno che diviene bisogno di aderire con il semplice dato della sua esistenza all’esistenza del mondo, in una coincidenza che è il vero senso della natura, da noi smarrito per sempre. Sfumano sullo sfondo, con la tecnica narrativa del flash back, i grattacieli e le strade asfaltate, la cattiveria e la miseria, la disperazione e la solitudine, anfratti abnormi e letali della civiltà urbana. Si assottigliano, si dileguano come perdendo il senso stesso della loro presenza. Così, alla fine del film, nonostante un epilogo di apparente tristezza, ci sentiamo sollevati, quasi: persone addolcite dalla riflessione obbligata a cui ci costringe un dolore, freschi di una ritrovata leggerezza, come avessimo cominciato a cambiare il nostro modo di guardare le cose.
(da "Il Vespro" aprile 2008)
di Giampiero Finocchiaro
Cous cous, non soltanto una pietanza ma un’idea. Come sempre accade per quei cibi tradizionali in cui si aggrumano sapori, odori, abitudini, storie.
Quella che racconta il film di Abdellatif Bechiche parla di emigrazione, sottintende tenacia e tolleranza ma, soprattutto, rivela quale grande differenza separi il mondo delle donne da quello degli uomini. Per ribadire, se fosse necessario, che il primo ha un valore ignoto al secondo.
Siamo in Francia, c’è crisi, forse, mentre di sicuro ci sono nuove strategie manageriali per cui un lavoratore dei cantieri navali, impersonato da Habib Boufares, non è più considerato produttivo. Il licenziamento arriva in modo subdolo così il protagonista fatica a prendere consapevolezza della sua nuova condizione. A frammenti, intanto, emergono i pezzi della sua vita privata e si compone un quadro che soltanto alla fine rivelerà il suo senso.
Sulla strada tracciata dall’uomo, si innestano vite di donne, storie agitate dall’incostante movimento di esili figure maschili, interiorità minime che sotto questo aspetto si accomunano tutte fra loro, includendo persino il protagonista.
Contrasta la grandezza delle tre figure femminili. Tre età, tre tipi, uniti dalla forza della vita che si esprime in un’indole fiera, fabbrile, concreta. Tutte e tre girano intorno alla soluzione finale, con diverso ruolo, indole, storia. L’apertura di un ristorante galleggiante, specializzato nella preparazione del cous cous. Intorno a questa vicenda che dà nuova speranza al protagonista, s’inaspriscono ma per sciogliersi, gli attriti e le incomprensioni. Complice una logica del fare e del sentire che sempre si sfilaccia nei luoghi a sud del mondo, ma sopravvive nei cuori, pronta a riemergere in territori di orizzonte settentrionale.
Inevitabile la tragedia finale e non per dare senso salvifico al film, piuttosto per ribadire, come si suggeriva all’inizio, che il mondo, quando è sinonimo di vita, non può che essere donna.
(da "Il Vespro" marzo 2008)
Abbiamo visto per voi
Dell’immagine: Guttuso e Caravaggio
di Giampiero Finocchiaro
Due mostre, entrambe contrassegnate dal valore dell’immagine nel suo complesso di significati che richiamano la forma esteriore e la sua rappresentazione mentale, espressione ed impressione, concreta ed astratta, in un gioco di rimbalzi che arricchiscono chi guarda e chi è guardato. Diversamente nei modi ma con uguale sostanza, due mostre di pittura dedicano all’immagine ampio spazio.
Guttuso: La potenza dell’immagine
Giungendo dalla strada del mare che da Palermo conduce a Bagheria, Villa Cattolica si mostra improvvisa nel suo splendore antico e per fortuna restaurato con garbo. Dal 15 dicembre e fino al 30 maggio 2008 vi si ospita una mostra dedicata alle opere che Renato Guttuso (1911-1987) ha realizzato nell’ultimo ventennio della sua vita e attività.
La bella villa costruita nel 1736 da Francesco Bonanno, principe di Cattolica (ormai di proprietà comunale), offre in effetti una location suggestiva, soprattutto per il famoso pittore bagherese di cui custodisce anche le spoglie nel bel monumento di marmi sospesi nell’acqua ideato nel 1990 dall’artista Giacomo Manzù. E se essa è sede di una Galleria di arte moderna e contemporanea lo si deve proprio ad un nucleo corposo di donazioni che Guttuso lasciò già nel 1973.
Quelle disponibili al pubblico sono circa 200 opere disposte tra il pianterreno e i due piani superiori. Ci si aggira in un articolato percorso fitto di stanze in cui osservare tutto, soffitti affrescati, pavimenti con belle maioliche e alle pareti quadri, fotografie e manifesti. Insieme, permettono di cogliere la varietà di un artista che forse al grande pubblico è noto per talune tele di particolare fortuna, come “La Vucciria” e il “Caffè greco”, che ai nostri lettori suggeriamo di osservare con attenzione, alla ricerca non solo di volti noti ma anche di personaggi misteriosi che sembrano uscire da un quadro ed entrare nell’altro, dando l’impressione di trovarsi davanti a un gioco da decifrare e lasciando anche la sensazione di odori e voci emanati dai quadri che si animano come scene di vita reale.
Di notevole effetto sono le grandi tele colme di soggetti femminili osservati in una carnalità piena ed elementare, quasi un dato di natura che della donna mostra una grandezza irraggiungibile, come sembrano suggerire taluni personaggi maschili schiacciati dall’accostamento a figure di donna invadenti, morbide, distratte ma sempre sensuali. Queste più di ogni altra opera mostrano la personale cifra del pittore bagherese sospinto da una parte verso un espressionismo facilmente riconoscibile e dall’altra chiaramente orientato al rifiuto di ogni canone accademico che gli fa preferire la sospensione libera delle sue figure nello spazio aperto della tela.
Interessanti sono pure i bozzetti realizzati per le scenografie teatrali in cui si coglie appieno l’insularità del pittore, complici le scelte cromatiche e i soggetti utilizzati (delfini, Colapesce, etc.). E suggestive riescono le fotografie in bianco e nero, che rimandano a luoghi lontani nel tempo, ma vivi di una memoria enorme se si considerano le compagnie più usuali presenti nei ritratti e che si chiamano Picasso, De Chirico, Sanguineti e simili.
La mostra consente anche di percepire il valore sociale della pittura di Guttuso che proveniva da una famiglia legata ai valori della libertà e della giustizia. Divenuto antifascista nel periodo della guerra, negli anni Settanta prese parte attiva alla vita politica e ne sono testimonianza sue famose opere come “I funerali di Togliatti” e, presente nell’allestimento di Bagheria, il “Comizio alla Vucciria”.
Caravaggio: L’immagine del divino
L’allestimento presso il Museo Pepoli di Trapani ha un pregio: mostra che le Amministrazioni di piccola dimensione hanno recepito l’importanza di incentivare il turismo culturale.
Le tele del Caravaggio (1571-1610) sono state collocate lungo un percorso che a taluni è parso infelice, ma va riconosciuto invece che la disposizione curata da RomArtificio inclina il visitatore a un raccoglimento che lo introduce al senso stesso della mostra: il senso del sacro. Aspetto, questo, innovativo della poetica del geniale pittore lombardo, vissuto in un periodo storico-culturale che avvertiva l’imponente sforzo compiuto dalla Chiesa nel corso della Controriforma per rivitalizzare l’autentico spirito cristiano. Michelangelo Merisi da Caravaggio, assimilò in particolare il rinnovamento spirituale proposto dai mistici e da personaggi come Sant’Ignazio di Loyola o San Filippo Neri e certamente risentì della riscoperta della teoria di Sant’Agostino sulla Grazia e la Luce divina. Luce che da lungo tempo veniva usata dai pittori di ogni luogo per dire simbolicamente della potenza divina ma che in Caravaggio coniuga l’istanza realistica con l’urgenza mistica. Da una parte, cioè, l’esigenza di ritrarre i suoi personaggi nella concreta drammaticità terrena e dall’altro l’analoga esigenza di mostrarne la tensione spirituale che trasforma la condizione terrena e tragica in necessario passaggio per l’elevazione dell’anima oltre la morte.
Gli spazi dedicati alla mostra consentono un contatto ravvicinato e intimo con i dipinti di Caravaggio ed è già questo elemento di apprezzabile confidenza che certamente il pittore stesso avrebbe gradito. Soffrono soltanto due grandi tele le cui dimensioni non consentono un’osservazione adeguata con lo spazio a disposizione. Per il resto è però piacevole trascorrere dai “doppi” di San Francesco in meditazione alla “Resurrezione di Lazzaro” e alla “Decapitazione di San Gennaro”. I “doppi” di San Francesco mostrano l’esito di 32 anni di indagini terminate nel 2000 e volte ad accertare l’autografia di entrambi i dipinti. Caravaggio non di rado, forse anche per mere ragioni commerciali, usava eseguire più volte un medesimo soggetto e non avendo l’abitudine di realizzare disegni preparatori ha messo in crisi i suoi studiosi, sempre alla ricerca di tracce che confermassero la mano del pittore e non quella dei suoi numerosi imitatori. Le didascalie consentono al visitatore-lettore di conoscere i segreti di questa singolare vicenda.
Al visitatore suggeriamo uno sguardo prolungato alla Resurrezione di Lazzaro, tela di circa 4 metri per 3, esempio efficace dei nuovi schemi compositivi adoperati dal Caravaggio, soprattutto per i soggetti sacri. Il quadro mostra sulla destra una moltitudine di gente su cui spicca la figura eretta del Cristo che col braccio teso e le dita della mano che accennano al noto gesto del Pantocrator, indica Lazzaro. Questi è riverso sulle braccia di chi lo sostiene, la sua figura complessiva con le gambe unite e le braccia distese evoca la Croce, così il Cristo nell’atto del Salvatore vede prefigurato nella sagoma del salvato il proprio destino di morte terrena, in un gioco di rimandi simbolici. Lo conferma la linea immaginaria che unisce il braccio del Cristo a quello sollevato di Lazzaro il quale a sua volta forma una sola linea con il braccio inferiore che termina, a terra, con la mano aperta rivolta a un teschio: un gesto di raccolta della Morte. E la donna il cui volto cerca il ritrovato calore del viso di Lazzaro, preannuncia il dolore di Maria ai piedi della Croce.
Segnaliamo, infine, l’incomprensibile assenza di riduzione del biglietto per i professori della scuola ai quali la frequenza di mostre, convegni e librerie dovrebbe stare come l’acquisto dei chiodi al falegname (che da operaio gode invece di ogni agevolazione inventabile).
(da "Il Vespro" febbraio 2008)
Rubrica di cinema: Lo abbiamo visto per voi
“Irina Palm. Il talento di una donna inglese”
di Giampiero Finocchiaro
Semplice la vicenda raccontata da questo bel film di Sam Garbarski con Marianne Faithfull e Miki Manojlovic: la malattia di un bambino costringe alla povertà una piccola famiglia composta da due giovani genitori e dalla non ancora anziana madre di lui. Siamo in Inghilterra, oggi. La vendita della casa consente di sostenere le spese sanitarie necessarie per capire di cosa soffre il bambino. Poi resta la speranza di una cura sperimentale in Australia. L’impossibilità di sostenere i costi e l’incapacità dei giovani genitori nel trovare una soluzione al di fuori degli schemi consueti e tragicamente banali, spinge l’anziana in direzioni insolite, casuali forse o semplicemente apparecchiate dal destino che in questa vicenda sosta a Soho, quartiere a luci rosse della capitale britannica. Il valore del destino sta tutto nella capacità delle singole persone di coglierne l’invito oltrepassando il muro delle convenzioni perché i “valori” della vita con cui tutti impastiamo di suoni insignificanti i nostri bei discorsi, stanno su un altro piano, per raggiungere il quale si deve avere il coraggio di incrinare le pareti rassicuranti dell’ipocrisia, dello status sociale. Lo fa Maggie, donna vicina ai sessant’anni che per caso e per forza si trova a imparare un nuovo mestiere, quello di “operatrice del sesso” in uno di quei locali di delirio nipponico dove ai maschi è permesso uno sfogo sessuale rapido e onanista ch’era invece divertente nell’intuizione di Woody Allen quando inventò l’Orgasmatic.
Il tocco di fata dell’anziana Maggie le procura un successo di pubblico con cui ottiene il denaro utile all’operazione del nipote. Sarà ripagata dalla velenosa bontà delle amiche impermeabili alla sensibilità come all’intelligenza, schiave di un equivoco diffuso che confonde la dignità con il decoro architettonico della casa. Persino il figlio, prima di tornare all’affetto e alla dovuta gratitudine, dovrà prima spezzare il condizionamento sociale con cui d’istinto giudicherà la madre.
La vicenda è teneramente ingentilita dal meraviglioso mondo interiore di Maggie. Colpisce l’esigenza di abbellire il locale squallido in cui lavora da sola, circondata di pareti buie e colpisce fortemente il rigore con cui si dispone al lavoro indossando abiti da donna delle pulizie. Nella sua mente non c’è quella separazione totale tra vita lavorativa e vita privata a cui la sollecita la giovane istruttrice, presto oscurata dall’inattesa abilità di Maggie. L’ambiente oscuro e perverso che la circonda, semplicemente non esiste per lei che ha chiaro uno scopo ben più alto, cosa che la pone al di sopra della miseria oceanica dell’umanità di passaggio al Sexy-World. Sarà il suo intimo senso di serenità, di aderenza al giusto, sarà la sua capacità di sopportazione dignitosa della difficoltà del vivere che le permetterà persino di traghettare il suo datore di lavoro, dall’aridità in cui è precipitato dopo il tracollo dei sogni giovanili ad una nuova speranza di affetto, da condurre insieme. L’apparente precipitare di Maggie verso il basso della scalinata sociale – concorrono la vendita della casa, la malattia del nipote, l’avvio infine di una professione simbolo dell’ipocrisia contemporanea – è in realtà il segno di un percorso inverso di elevazione e di riscatto morale. Dalla insignificante vita piccolo borghese delle amiche di un tempo Maggie, divenuta Irina Palm, si distanzia per diventare unica e irraggiungibile per dignità, conquista una posizione di inimitabile prossimità con la Giustizia e la Verità. La mediocrità del gruppo da cui Maggie si allontana è colpa senza pena; le difficoltà che la vita le impone e che lei sa accettare e contrastare rappresentano invece all’opposto una pena senza colpa. Da qui l’inverso procedere che la conduce nel mondo che è solo dei santi e degli eroi..
(da "Il Vespro" gennaio 2008)
ultimo aggiornamento della pagina: 15/09/2009